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La luce perfetta della scrittura

Susanna Bissoli, autrice del recente romanzo Le parole che cambiano tutto, ed Elena Varvello, in libreria con La luce perfetta del giorno, si incontrano su queste pagine virtuali per parlare di scrittura, di temi fondamenali come la vita e la morte, e di… ricordi dell’asilo.


[Susanna Bissoli] Quando ho letto La luce perfetta del giorno non ce l’avevo sottomano ma mi è subito venuto in mente il racconto “La pistola” in L’economia delle cose, penso per quel senso di minaccia improvvisa che si insinua a volte nella quotidianità. Quell’uomo con la pistola che l’anziana signora dice al marito di aver visto in cucina, che poi anche al marito sembra di intravedere in giardino, mimetizzato dentro la sua immagine riflessa nel vetro della finestra. Nel racconto è il primo segno di un cedimento psichico della donna, e un insinuarsi della paura per l’uomo. Nel tuo romanzo c’è una minaccia che arriva dal bosco, dal luogo dove Matilde e Paolo stanno per costruire la casa. Leggendo il tuo libro mi è venuto in mente anche Pinter e il suo teatro della minaccia. Chi o cosa minaccia i tuoi personaggi, cosa ci minaccia? Il tempo, la malattia, noi stessi, che cosa?

[Elena Varvello] Be’, sì, è vero. C’è un senso d’inquietudine, una minaccia, c’è sempre, in tutto quello che scrivo – non che io me lo imponga, solo che le cose vanno così. Credo che, molto semplicemente, questo abbia a che fare con il modo in cui vedo la vita. Cosa minaccia i miei personaggi? Difficile dirlo. Penso a loro (quelli di La luce perfetta del giorno così come quelli dei racconti che compongono L’economia delle cose) come a pionieri, padri pellegrini sbarcati su una terra sconosciuta e selvaggia. Li immagino sempre così, chissà perché. Come se, facendo la loro comparsa nella storia che sto scrivendo, mettessero piede su una terra occupata da una fitta foresta, un bosco intricato che dovranno attraversare, un posto di cui non hanno alcuna esperienza. Da un certo punto di vista, sono bambini, devono ancora imparare. È per questo che ci sono molte cose da cui si sentono minacciati, cose di cui hanno paura. Molti fantasmi – la malattia, la scomparsa di coloro che amano, il passare del tempo, l’abbandono, la solitudine. Quel bosco rappresenta tutte le loro paure, e misteriosamente, nello stesso tempo, li attrae.   

Hai affermato altrove che Alice Munro è un modello per te. Io la ritrovo soprattutto nel seguire i personaggi nelle loro metamorfosi anche fisiche, nel fatto che nel tuo romanzo racconti gli effetti del tempo sui corpi e sulle relazioni.

Alice Munro è senza dubbio uno degli scrittori che più mi hanno influenzata. Continuo a immaginarla in una casa che si affaccia su un lago, in Canada, mentre guarda fuori da una finestra. Si tratta proprio di un’influenza, un potere attrattivo, come quello esercitato dalla luna sulle maree. Un grande esempio, soprattutto per quanto riguarda la narrazione della natura e la narrazione del tempo, la capacità di lavorare col tempo. Credo che, più di ogni altra cosa, uno scrittore racconti del tempo e dei suoi effetti sui personaggi. Come sono, cosa sono, all’inizio di una storia, e cosa e come saranno alla fine. Il cambiamento, e ciò che succede fra l’inizio e la fine. Tutto accade nel tempo, ma, fra le mani di uno scrittore, il tempo si fa malleabile, perde la sua inesorabilità. Da questo punto di vista, la scrittura è un gesto anarchico, un meraviglioso atto di ribellione. Parti dalla fine, muoviti in avanti, torna indietro, adesso fermati: una cosa così. 

Tu hai pubblicato anche dei libri di poesia. In che rapporto sta la scrittura di storie con la poesia? Che rapporto hanno con la realtà?

A essere sincera, credo proprio che non avessi talento, come scrittrice di poesie. Molta velleità, e moltissime ingenuità. Tant’è, l’ho fatto, mi piaceva, e penso di avere imparato qualcosa: scrivi solo ciò che è necessario; cerca di capire che ritmo ha ciò che scrivi, perché il ritmo non è secondario; ricorda cosa significa la brevità, cosa comporta, e cosa ti obbliga a sacrificare. Da qui ai racconti, il passaggio è stato breve. Anche lavorando a La luce perfetta del giorno, ho continuato a ripetermi le stesse cose. Comunque, ho sempre pensato che la poesia fosse un modo per raccontare una storia, per raccontare il mondo – l’angolo di mondo in cui siamo stati gettati – e le cose che si succedono o che vediamo succedere a chi ci sta intorno.      

Scusa la citazione, ma mi succede sempre così, le parole, le storie, mi richiamano altre parole e altre storie. So che ami Wislawa Szymborska. C’è quella poesia che dice Forse tutto questo avviene in un laboratorio? / Sotto una sola lampada di giorno / e miliardi di lampade la notte? /Forse siamo generazioni sperimentali? / travasati da un recipiente all’altro, / scossi in alambicchi / osservati non soltanto da occhi / e infine presi uno a uno / con le pinzette? / O forse è altrimenti: / Nessun intervento? / I cambiamenti avvengono da soli / in conformità al piano?…
A me i personaggi del tuo romanzo fanno l’effetto di vite isolate e studiate in laboratorio, c’è un interesse quasi scientifico per le dinamiche, le reazioni. Qual è stato, durante la stesura di questo romanzo, il tuo atteggiamento nei confronti dei tuoi personaggi?

In realtà, la questione è ambivalente. Da un certo punto di vista, è vero: isoliamo e studiamo le vite dei nostri personaggi, e la scrittura è il nostro laboratorio. D’altro canto, però, e prima ancora di questo, c’è qualcosa di misterioso e inafferrabile nel modo in cui i personaggi ci si presentano ponendoci una domanda – sostanzialmente, chiedendoci o imponendoci di raccontare la loro storia. Per me funziona così: quando inizio a scrivere, è perché ho visto e continuo a vedere una scena, e quindi un personaggio che in quella scena si muove, ma in realtà non so quasi nulla di lui, o di lei. Davvero, so molto poco. La scrittura è un laboratorio privilegiato, ma anche il luogo della scoperta. Un lavoro archeologico. Un processo di emersione. Una sorpresa.   

I tuoi personaggi sognano moltissimo. Che cosa sono i sogni?

E chi lo sa? Quel che posso dire è che mi piacciono molto. Non raccontarli, mi sembrerebbe simile a un’amputazione. I personaggi – le persone – pensano e parlano e sperano e ricordano e sognano, tutto qui. Molto semplice. Poi, mi piace la strana, eccentrica, paradossale coerenza dei sogni.     

Il rapporto tra Matilde e Paolo, la coppia che all’inizio della storia va a visitare il luogo dove sorgerà la loro casa all’imbrunire, è segnato fin dall’inizio da un conflitto, un disaccordo non banale. Matilde non è contenta di andare a vivere lì, ma poi è il posto dove crescerà i figli, dove si innamorerà di un altro, dove si ammalerà, dove passerà la vita. A me è piaciuta molto questa incrinatura iniziale che si trasforma in un destino. Hai voglia di dire qualcosa in proposito?

C’è una cosa bellissima scritta da Karen Blixen, una frase che dice più o meno così: “Riuscirò, un giorno, o qualcuno riuscirà, a vedere il disegno che la mia vita ha tracciato?”. Ci penso spesso. La nostra esistenza dà vita a un disegno che potremmo chiamare destino? E se è così, riusciremo a vederlo, o qualcun altro ci riuscirà? E quando? Soltanto alla fine? E di quale disegno si tratta? Quando arriva a Croci, Matilde non ha la minima idea di cosa l’aspetti – e come potrebbe? – ma alla fine, guardandosi indietro, sarà in grado di vedere il suo disegno. E’ una cosa che le invidio moltissimo.  

Ancora riguardo l’ambientazione del romanzo: si nominano anche luoghi come la parrucchiera, la piscina, il supermercato, ma sembrano appartenere a un’altra dimensione rispetto alle cucine, ai salotti, alle camere da letto. Ci sono le stanze della casa e c’è il fuori, il bosco, il buio scrutato dalla finestra. E luce, cielo nuvole, neve. Sogni di neve, anche. C’è un dentro reale e un fuori simbolico. Che rapporto c’è tra il dentro e il fuori.  E a cosa allude il titolo, La luce perfetta del giorno?

È vero. Le cucine, le camere da letto, i salotti sono reali, sono gli spazi che conosciamo, i luoghi in cui cerchiamo e troviamo riparo. Poi c’è il bosco, che non è meno reale, certo, ma che ha anche un valore simbolico – o almeno così mi sembra, ripensando a quello che ho scritto. È ciò che non conosciamo, ma che dovremo, prima o poi, attraversare, affrontare. Quel che accade nelle favole, no? E poi ci sono il buio e la luce. Il romanzo è un viaggio dal buio alla luce. Dalla notte al giorno. Un viaggio verso la salvezza, qualsiasi forma essa assuma, per ciascun personaggio. La luce perfetta del giorno è quella salvezza.

Che tipo di scrittrice sei? Zadie Smith in Cambiare idea riporta la classificazione in “Macropianificatori” e “Microgestori” – che sono parolacce lo dice anche lei – ma insomma: fai prima un piano dettagliato o scopri anche tu la storia e i temi via via che scrivi?

Quando comincio a scrivere non ho nessun piano, proprio nessuno. Non uso scalette – ci ho provato, ma le perdevo, o le tradivo – e non faccio schede dei personaggi, le trovo terribilmente noiose. Perciò, da questo punto di vista, sarei un “micro gestore”. Nel senso che scopro la storia soltanto scrivendola. Lavoro per scene, cercando di trovare il rapporto, il nesso, il movimento fra l’una e l’altra. Anche per questo penso alla scrittura come a una scoperta continua, una sorpresa.   

Mi puoi descrivere il luogo o i luoghi in cui scrivi di solito?

Scrivo sempre nello stesso posto, non potrei mai scrivere altrove. Sono molto, molto abitudinaria, e ho bisogno di tranquillità e di silenzio. Una stanza con una finestra che dà su un giardino. C’è un grande disordine. Ci sono tazze di caffè e posacenere dappertutto. I libri che sto leggendo in questo momento. Pacchetti di caramelle. E taccuini che continuo a comprare senza mai decidermi a usarli.

Cosa avresti voluto fare da piccola?

Moltissime coseLa scrittrice,intorno ai dieci, undici anni, ma anchela giornalista,l’astronauta – mi ci vedevo, davvero – l’architetto e l’avvocato. Soprattutto l’avvocato. Mi piaceva l’idea.  

Mi racconti un ricordo dell’asilo, se ci sei andata, o della scuola elementare?

Non è che ricordi granché, a esser sincera. Ero molto timida, questo sì, lo ricordo. E solitaria, in un certo senso. C’era sempre qualcosa di cui mi vergognavo, chissà perché. Per esempio, mi vergognavo d’essere più alta delle altre bambine. Mi sentivo molto ingombrante. Anche Monica, la figlia di Matilde, si sente così.    

Qual è il primo libro che hai amato?

Piccole donne, e I promessi sposi, che mi lesse mia madre quando avevo sette o otto anni. Adoravo ascoltare la sua voce.

Mi consigli tre libri?

Solo tre? Troppo difficile. Diciamo tre scrittrici, e tutto, tutto ciò che hanno scritto. Alice Munro. Flannery O’Connor. Elisabeth Strout. Meravigliose.

Un pensiero riguardo il futuro.

Be’, spero che ciascuno di noi riesca a vedere il disegno di cui parla la Blixen, o che qualcuno, al posto nostro, riesca a vederlo. Non posso a pensare a niente di meglio. Sarebbe una gran cosa, no?

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    Terre di mezzo editore è una casa editrice fondata a Milano nel 1994.
    Pubblica ogni anno più di 100 titoli. Tra le collane principali ci sono: L’Acchiappastorie albi e narrativa per bambini e ragazzi, i Percorsi a piedi e in bicicletta, I Biplani, racconti di grandi autori illustrati da artisti di fama, i manuali creativi delle Ecofficine.
    I primi grandi bestseller sono stati la guida al cammino di Santiago de Compostela e La grande fabbrica delle parole, di Valeria Docampo.
    Negli ultimi anni ha portato in Italia le serie di Dory Fantasmagorica e Cane Puzzone, ha pubblicato più di 40 guide ai cammini italiani e ha dato alle stampe i testi di Paolo Cognetti e Erri De Luca impreziositi dalle illustrazioni di Alessandro Sanna, e di Wislawa Szymborska con Guido Scarabottolo, e Claudio Piersanti con Lorenzo Mattotti.

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