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Rick Moody e la scrittura antipanico

Ho l’impressione che spesso – forse un troppo spesso – tendiamo a dimenticarci che uno scrittore, per quanto famoso e celebrato, è e resta un essere umano. Il problema è che a volte sono gli stessi scrittori a dimenticarselo. Ma questo, ovviamente, vale un po’ per tutti. Poi succede che trovi un autore – uno che il New Yorker ha inserito tra i più significativi degli ultimi anni – felice di presentare il suo ultimo libro in un circolo Arci alla periferia di Milano, felice per quelle quaranta persone che, pur di sentirlo parlare, hanno sfidato la pioggia e il traffico all’ora di punta in un giorno feriale, quelle quaranta persone che fanno domande anche oltre il termine della presentazione e lui se sta lì, a chiacchierare amabilmente con ognuno. Be’, trovi uno scrittore così e finisce che quasi ti stupisci. Ed è strano, no? 
Questo accadeva un anno fa, e tra quelli che hanno provato a incrociare due parole in inglese con il suddetto scrittore c’ero anche io. Da quell’incontro fugace con Rick Moody (autore, tra l’altro, di La più lucente corona d’angeli in cielo) nasce, in qualche modo, l’intervista inedita che trovate qui sotto. 

Perché scrivi? Da dove arrivano le tue storie?
Oh, la so! Domanda facile. Ho risposto a questa domanda (“perché scrivi?”) in molti modi diversi nel corso degli anni, e di solito la risposta era una cosa tipo: “Perché mi faccio prendere dal panico”. Dato che mi faccio prendere dal panico, scrivo per dare un senso alle cose che mi gettano nel panico, e per cercare di descriverle, e per ri-ordinare il mondo in modo che mi provochi un po’ mendo d’ansia. Tuttavia, oggi, direi che questa è un po’ un’esagerazione. Può essere che abbia iniziato a scrivere a causa del panico, ma ora vado meno nel panico e forse scrivo perché amo farlo, anche se è difficile e opprimente, in genere. A questo punto, molte delle cose da fare sono automatizzate. Non devo neanche mettere molti pensieri nelle idee. Le idee mi arrivano spontaneamente e io permetto al mio subconscio, o al mio preconscio, di fare la maggior parte del lavoro. La parte che mi viene lasciata è quella della prosa, la parte musicale, ed è quella che mi piace davvero. Mi piace pensare a come migliorare un paragrafo. Tutto questo per dire, quindi, che se sapessi davvero da dove arriva l’opera non sarebbe un grande mistero. E se non fosse in qualche modo un mistero, non sarebbe così piacevole. Almeno, in questo periodo è così che la vedo.

Qual è la responsabilità di uno scrittore nei confronti del lettore?
Non penso più di tanto a questa domanda. Don DeLillo, per esempio, ha detto che non pensa di avere un lettore ideale, ma una serie di modelli. Io penso che una serie di modelli sia qualcosa verso cui dovresti sentirti responsabile, mentre componi. Ma la mia idea di lettore è che lui abbia voglia di andare in qualsiasi posto mi senta di andare io, in qualsiasi direzione stia bene a me in un dato momento, sia essa la direzione del sacro o del profano. Questo significa chiedere molto al lettore, ma da lettore questo è il tipo di lavori che amo. Se Dostoevsky, per esempio, si fosse preoccupato di quanto fosse cupo I fratelli Karamazov mentre lo stava componendo (“Gesù, questa cosa è davvero cupa, e questi personaggi vogliono speranza, e tutto questo disgusterà un sacco di lettori”), noi non avremmo il romanzo. Una domanda migliore sarebbe questa: “Qual è l’irresponsabilità dello scrittore verso il lettore?”. E io risponderei: “Una grossa irresponsabilità”.

Un nostro autore, Giorgio Fontana, nel suo Babele 56 a un certo punto chiede al lettore e a se stesso: “La parola salva o condanna?”. Cosa ne pensi?
Questa è una sorta di contrapposizione religiosa, e dato che io non sono immune dalle consolazioni della religione, amo la poesia che contiene. Ad ogni modo, non penso che queste siano le uniche possibilità per “la parola”. Umberto Eco ha scritto un grande saggio a proposito del linguaggio nel Giardino dell’Eden, nel quale sostiene che il linguaggio non sarebbe mai esistito se Eva non avesse mangiato la mela, dando così un senso all’ordine di non mangiarla. Cioè, non hai bisogno del linguaggio finché non ti manca qualcosa, finché non sei incompleto e ti riconosci come tale. Sono affamato, sono solo, quella mandria di bufali indiani può travolgerci ecc. Il linguaggio articola questo desiderio, e articola i problemi associati a questo desiderio. Anche nei casi più complessi, è fondamentalmente un motore per la risoluzione del conflitto. Di conseguenza, se la parola condanni o salvi è una stratificazione di questa capacità programmatica piuttosto semplice. Secondo me c’è una tendenza della “parola” a non funzionare correttamente. Cioè, nel linguaggio c’è una percentuale di fallimento. Non ho le cifre esatte davanti a me questa mattina (sono le 5.41), ma possiamo dire che il linguaggio ha un tasso di fallimento del venti per cento. Questo significa che il linguaggio salva quattro volte su cinque e che condanna in tutti gli altri casi. Che fare di questa tendenza perché salvi e condanni allo stesso tempo? Forse l’unica conclusione logica è quella di arrivare a una contrapposizione migliore e più efficiente. La parola trasmette un significato? O è puramente decorativa? 

Quando ci siamo incontrati in Italia, alcuni mesi fa, ti ho chiesto quale fosse, secondo te, il tuo miglior libro, e tu mi hai risposto una cosa tipo: “Credo che nessuno dei miei libri sia buono”, e che odiavi tutto quello che avevi scritto. Credi davvero che un bravo scrittore non possa essere soddisfatto dalla sua scrittura? Perché?
Dire che non sono soddisfatto di nessuno dei miei libri è un po’ una vanteria. Odiarli lo è ancora di più. Non voglio che suoni così. Ma se hai una serie di modelli, devi essere onesto circa la tua incapacità di raggiungere il livello di quei modelli. Credo che Racconti di demonologia sia ok, e che Rosso americano sia abbastanza buono, e ci sono dei passaggi in Il velo nero che mi piacciono ancora, e il racconto “Albertine” (contenuto nella raccolta Tre vite, ndr) ha una purezza di cui sono sicuro e di cui ancora godo, le rare volte in cui la incontro. Ma se avessi scritto un libro perfetto probabilmente riterrei davvero difficile scriverne un altro altrettanto buono, e proverei, di nuovo, quel senso di panico che mi ha spinto a scrivere all’inizio.

Di cosa parlerà il tuo prossimo libro? A cosa stai lavorando in questo periodo?
Sto lavorando a un nuovo romanzo, provvisoriamente intitolato Le quattro dita della morte, ed è una sorte di folle ripresa per libera associazione di un vecchio film horror dei primi Anni 60, “The crawling hand” (La mano strisciante, ndr). Dentro c’è di tutto e anche di più, ed è ambientato principalmente nel deserto a sudovest degli Stati Uniti (e del Messico). Sto lavorando anche su alcuni saggi sulla musica contemporanea, e probabilmente quando avrò finito pubblicherò un volume con tre saggi, se il mio editore non mi sbatterà fuori dalla stanza ridendomi dietro.

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    Terre di mezzo editore è una casa editrice fondata a Milano nel 1994.
    Pubblica ogni anno più di 100 titoli. Tra le collane principali ci sono: L’Acchiappastorie albi e narrativa per bambini e ragazzi, i Percorsi a piedi e in bicicletta, I Biplani, racconti di grandi autori illustrati da artisti di fama, i manuali creativi delle Ecofficine.
    I primi grandi bestseller sono stati la guida al cammino di Santiago de Compostela e La grande fabbrica delle parole, di Valeria Docampo.
    Negli ultimi anni ha portato in Italia le serie di Dory Fantasmagorica e Cane Puzzone, ha pubblicato più di 40 guide ai cammini italiani e ha dato alle stampe i testi di Paolo Cognetti e Erri De Luca impreziositi dalle illustrazioni di Alessandro Sanna, e di Wislawa Szymborska con Guido Scarabottolo, e Claudio Piersanti con Lorenzo Mattotti.

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