Un fotografo professionista, unico abitante, insieme al suo cane, di un piccolo borgo abbandonato delle Alpi Marittime. Un viaggio di 400 chilometri lungo il fiume sacro di Roma: il Tevere. L’avventura raccontata nel libro Tutto il Tevere dalla sorgente al mare. Abbiamo chiesto a Pietro Vertamy di dirci il perché di questo viaggio e che cosa ha significato per lui.
Perché cammini? Quali sono i sentimenti che ti portano a decidere di affrontare un cammino?
Ancora prima che per me stesso, avrei qualche dozzina di buone argomentazioni sul perché in generale, abbia senso la pratica del cammino, sul che cosa oggi la renda una scelta di vita intelligente.
Con tutto il parlare che se ne fa negli ultimi tempi, il rischio è di risultare retorici, non posso negare però di come si tratti del risultato di tanti addenti privatissimi ma di solito ricorrenti nella comunità degli “erranti”. Il gusto per l’esplorazione, la riscoperta del territorio, la necessità di cielo sopra la testa, l’interesse per la natura nel suo insieme, la voglia di avventura, il bisogno di incontri unici con momenti e persone, la necessità atavica di spostarsi sopra il pianeta. Il tutto all’insegna della riappropriazione di un sentimento di lentezza e di un ritmo logico per lo stare al mondo. In barba alla nevrosi del sempre prima.
Questo proprio dal capitolo “Introduzione tardiva” del libro sul Tevere:
“Cammino innanzitutto perché so camminare.
Ho imparato da piccolo e non ho più smesso.
Non credo mi abbiano rifilato le gambe a caso come una seconda scelta. Non mi sento vittima di un raggiro.
Se sono lì a penzolare dal tronco sarà per un motivo preciso, mi dico. Altrimenti ci avrebbero montato su delle ruote, un paio di sci o qualcosa del genere. Dei tentacoli, magari, delle sfere antigravitazionali.
A poter scegliere l’umanità avrebbe optato per un bel paio di ali. Sicuro. E come darle torto. Quello sì, sarebbe stato divertente.
Ma l’evoluzione ha premiato le scimmie e non le cocorite. Questo è quanto, e ci si accontenta.
E in realtà si cammina con gusto.
(Anche soltanto delle zampe con gli artigli sarebbero stata un‘opzione niente male)”
Perché il Tevere?
Sono nato piemontese, cresciuto romagnolo, e ora alpigiano, ma cittadino romano per buona parte della mia vita adulta. Non credevo fosse possibile percepire un luogo come un essere vivo, una città come immensa creatura in balia del proprio temperamento, con il suo buono e cattivo umore. Instaurare una relazione simbiotica di necessità reciproca per poi vivere ogni singola fase da manuale amoroso, dall’infatuazione, alla rottura. Che di solito, quando capita, è conseguenza di un abbandono oppure di un tradimento. E quello per Roma è stato uno degli amori più disperati della mia vita e il mio, a tutti gli effetti, un tradimento.
Nel mezzo, quasi vent’anni di Tevere. A volerlo o meno. Come pensare, non abbia avuto un qualche ruolo in tutta questa mia storia. E infatti lascia Roma alcuni anni fa, ma con l’impegno di approfondire prima o poi il tema “fiume” nella sua interezza. Per capirci qualcosa di più, soprattutto del “prima e dopo” in relazione alla capitale. Dove nasce e dove cambia il proprio piano di esistenza nel Mar Tirreno. Perchè che i Tevere passi a Roma lo sappiamo tutti, però…
Con la socia Ilaria di Around the Walk stavamo parlando di questo viaggio da un po’ e alla prima occasione buona che ci si è presentata, nel 2018, ho mantenuto quella promessa, per preparare lo zaino e nel 2020 sono partito con lei e un gruppo di colleghi fotografi in un’avventura di documentazione collettiva che abbiamo chiamato OltreTevere organizzata in collaborazione con le associazioni romane PhotoTales ed Eternal Tiber.


Quali sono le particolarità di questo viaggio di 400 chilometri lungo il fiume sacro di Roma?
Proprio il fatto di non essere sacro a Roma, o almeno non soltanto.
Il Tevere sviluppa 405 chilometri, noi ne abbiamo camminati, esplorati e documentati 434 in un’operazione collettiva atta a creare uno stato dell’arte che si spingesse al di là dei luoghi comuni. La restituzione è quindi ben lontana dalla città di Roma e dai suoi stilemi di rappresentazione.
C’è tutto un mondo che si muove prima di quel breve tratto capitolino, ben consci di come sia, e rimanga, assolutamente ferale per la storia del paese nella sua interezza da un punto di vista storico, artistico e ancor di più archeologico. La speranza era quella di una restituzione in bilico fra espressione artistica e rigore scientifico/tecnico per una prima raccolta dati complessiva, a favore di chi cammina, e che – ci tengo a sottolineare – non credo sia utile soltanto a fine turistico. Il seguire lentamente le mutazioni del fiume nella sua interezza, della natura che lo circonda, esattamente come delle dinamiche uomo-territorio, restando lontani da quelle più che indagate del Tevere capitolino, è un operazione utile -o almeno lo speriamo- alla comprensione più profonda del territorio italiano. Uno strumento efficace nelle mani di chi ha cuore temi di tipo ambientale ed ecologico, ma anche di semplice gestione del territorio che si vive, visto che il Tevere attraversa 4 Regioni, bagna 46 comuni, un’infinità di paesi, borghi, frazioni e conta ben 6 dighe artificiali lungo il suo corso.
Qual è stato il momento più emozionante che hai vissuto percorrendo tutto il Tevere in questo viaggio collettivo?
Ogni viaggio a piedi prevede un punto alto, di “conquista”, esattamente come uno basso dal quale venir via, con il minor danno possibile. Da entrambi, in genere, si impara qualche cosa. L’ampiezza fra cresta e ventre di quest’onda definisce l’intensità del viaggio stesso, ma sono riflessioni che in genere si riescono a fare dopo, quando il tempo ha permesso di far respirare il tutto, di far sedimentare le esperienze. Questa volta no. Con mia grande sorpresa, il momento importante di “rivelazione” si è presentato già il primo giorno, e ne ho avuta la netta percezione quasi subito. L’incontro con Maurizio e i pulcini di rapace che alleva nel suo casale sperduto fra le colline tosco romagnole, dove cerca di aiutare i ragazzi con difficoltà sociali, è stato di quelli indimenticabili. Un momento cristallizzato nel tempo di grande accrescimento personale ed emotivo, difficile da derubricare come “normale” incontro se non contestualizzato nell’aspetto “magico” che pratica del cammino sa e può regalare.
Nel libro dedichi una bella riflessione al tempo e alla lentezza. Qual è il tempo della tua quotidianità?
Di sicuro non è quella del me in cammino. Questo è poco ma sicuro. Se c’è una cosa che amo dell’erranza è proprio il poter assecondare la mia parte più profonda e intima. Quella al contempo riflessiva e contemplativa che di solito sparisce del tutto di fronte alle mie abitudini di un quotidiano incastrato fra il nevrotico e l’ansioso. L’ansia, l’affanno per la “mancanza di tempo” soprattutto, ho scoperto essere un’abitudine, ovvero un qualcosa che si impara fin da bambini e che si fa propria negli atteggiamenti, nelle posture del corpo e nel linguaggio in generale.
Ritarare la gestione del tempo, ma ancora di più quella del ritmo della propria quotidianità, attraverso la pratica del cammino su lunghe distanze, è stata una specie di rivelazione per me.
Hanno cominciato a coesistere persone diverse in maniera del tutto inaspettata, con buona pace di qualunque possibile diagnosi psichiatrica!
Ora, quando non sono in cammino e mi accorgo di queste mie attitudini nefaste, aspetti personali che deploro in me, posso ricordarmi come io in realtà non sia “quella roba lì” nel profondo, per provare a contenerli e migliorarmi.
Per me stesso certo, ma soprattutto per chi mi sta intorno e con pazienza mi sopporta nel quotidiano.


Parlaci di cosa intendi per “paesaggio umano” e racconta l’incontro più speciale che hai fatto durante questa avventura.
Non disdegno la compagnia, ma in generale dove posso, amo camminare e viaggiare da solo. Per molti motivi, ma anche e soprattutto perché l’essere solo, uomo libero – si spera – fra i liberi, mi facilita negli incontri.
Di Maurizio ho già parlato, ma anche soltanto per questo viaggio specifico sul Tevere, potrei annoverare altre due dozzine di persone come “importanti” e in qualche modo “formative” per la mia persona e in particolare, per la mia memoria. E negli anni, diventano centinaia.
Pensandoci nella loro somma e complessità, mi sono accorto di una loro concreta possibilità evocativa, un “paesaggio umano” appunto, del tutto simile all’idea stessa di paesaggio che siamo abituati associare in primis al senso della vista, “il paesaggio visivo/visuale”.
Lo stesso discorso, un camminatore attento, lo può traslare sul proprio udito per la costruzione e rappresentazione di una memoria uditiva del proprio viaggio e il tratteggio di un personale “paesaggio sonoro“.
Ad oggi, dal punto di vista della teoria filosofica, del come nasca il concetto stesso di paesaggio in epoca moderna, della sua trasversalità fra le varie discipline e soprattutto della sua relazione con la produzione di massa di immagini, il discorso si fa lungo, complesso e periglioso.
Posso, però di sicuro affermare a titolo personale, che la memoria (e a volte la sua rappresentazione espressiva) di ogni mia esplorazione sia la somma di questi tre paesaggi che si sovrappongono e a volte, sfumano uno nell’altro. In esperienza che a volte come collettivo Around the Walk, proviamo a riportare a vera e propria esperienza di documentazione e quindi anche con velleità di articolazione di linguaggio.
Che cosa ha significato per te percorrere e mappare questo cammino?
Ogni esplorazione che riesco a portare a termine ha il gusto implicito di riuscita.
L’auto compiacimento che ti fa dire “Bravo! Anche questa te la sei portata a casa”.
E lo dico da persona del tutto avulsa – per formazione – dagli atteggiamenti competitivi oppure da qualche idea di traguardo valoriale da raggiungere.
Questo viaggio però è stato di conferma “al mio esterno”. Oltre a ribadirmi la personale necessità della pratica del cammino su lunghe distanze come attitudine di vita, mi ha convinto della validità di quello che faccio e facciamo come collettivo. Ho avuto riscontro della sua utilità. Prima di partire alcune criticità tipiche del viaggio di gruppo, mi preoccupavano, ma sono state egregiamente gestite e tutto è filato liscio, grazie sia all’intelligenza dei miei compagni di cammino, che all’impagabile lavoro organizzativo e logistico portato avanti dall’associazione PhotoTales nella persona di Sarah.
Ho avuto anche conferma di quanto siano importanti passione, entusiasmo, competenza, intelligenza e curiosità per la buona riuscita di un progetto.
Fotografie di ®Ilaria Di Biagio/ Around the Walk
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