Cosa lega ogni padre? Cosa resta della memoria? Il senso dell’elefante, l’ultimo romanzo di Marco Missiroli in cinquina al Premio Campiello, si muove sul filo di domande dure come rocce, quesiti che gravano – inconsapevolmente o meno – sulle esistenze dei personaggi che l’autore chiama a raccolta in un condominio della Milano borghese dei giorni nostri. Su tutti spicca Pietro, il nuovo portinaio arrivato da Rimini in fuga dal suo passato (ex prete, ha divorziato da dio perché dio “non aveva un carattere facile”), qui per proteggere quello che potrebbe essere – ma non sarà – un nuovo futuro.
A partire dallo stesso Pietro sono in tanti a nascondere qualcosa in questa storia: il portinaio appena può si intrufola nell’appartamento della famiglia Martini, fruga qua e là e ogni tanto si porta via qualcosa, e poi proprio Luca Martini, medico in un reparto di oncologia pediatrica e responsabile di una “attività parallela” che potrebbe procurargli solo guai, o sua moglie Viola, che gli ha celato (almeno così crede) la verità più dolorosa, o il vecchio avvocato che amministra lo stabile, l’unico forse a conoscerli davvero tutti i segreti dei suoi inquilini. C’è l’insondabilità del cuore umano e c’è il mistero della morte (“Mi dica cosa rimane dopo” “Rimane il ricordo” “La grande menzogna, ecco cos’è il ricordo”). Ci sono promesse da mantenere e insopportabili tradimenti. Ci sono affetti da proteggere a ogni costo e inevitabili sconfitte (“L’impotenza per la sorte dei figli lega ogni padre“).
Nel tuo romanzo molti personaggi, o quasi, hanno un segreto da nascondere, o un passato da dimenticare. La mia impressione – la mia esperienza – è che troppo spesso tendiamo a dare per scontate le persone, in particolare quelle che crediamo di conoscere davvero. Ma non è mai così fino in fondo. Questo, secondo me, è un tema che ha a che fare con l’abitudine (per pigrizia rischiamo di disinteressarci delle persone) e con la fiducia (è possibile fidarsi davvero di chi ci sta accanto? di chi incontriamo?). Tu che ne pensi?
Penso che ognuno di noi abbia una componente di mistero e di segreto. Chi non la protegge fatica a conoscersi veramente, o a non difendersi. Un segreto è una potenza, sia per chi lo custodisce sia se ci viene rivelato. Affidarlo a qualcun altro significa dare un pezzettino di esistenza fuori, essere più vulnerabili. La sorte, in questo caso, è in parte in mano altrui. Io ho a che fare con i miei personaggi anche in base a questo doppio che possono avere, nessuno è come sempre. Mai fino in fondo. E lo stesso cerco di fare nella vita di ogni giorno. L’abitudine addomestica lo sguardo, bisogna sempre tenerlo vivo nel vedere che c”è sempre un rovescio della medaglia. Anche scrivendo.
Altri tratti comuni nella tua storia sono il tradimento e l’abbandono. A un certo punto, nel dialogo tra due personaggi, parli di “amore minimo” e “amore massimo”, e fai dire a uno dei due che l’amore massimo è quello per una persona sola, e che è possibile difenderlo se lo si vuole. Ne sei davvero convinto? Perché?
Sì, ne sono convinto. Ovviamente il tradimento è figlio di un malessere, spesso però è codificato nella normalità. È ovvio che difendere l’amore per una sola persona è faticoso e spesso difficile, ma in questo sforzo c’è quello che si chiama devozione. E a me la devozione interessa parecchio.
Il tuo è anche – e forse soprattutto – un libro sulla paternità. Tu però non hai figli: perché hai deciso di lavorare su un tema del genere?
Perché un figlio è anche potenziale. Verso i figli degli altri, certo, ma anche verso il sentimento paterno che una persona può avere. C’è la funzione, spesso manca l’oggetto. E allora possono esserci grosse mancanze, o reinvenzioni di sentimenti come nel caso del mio romanzo. Il senso dell’elefante è un tentativo di legame nuovo, ma non di compensazione o consolazione. Piuttosto di salvezza.
So che la lavorazione di questo libro è stata lunga e, per certi versi, sofferta. Ti va di raccontarci qualcosa in proposito?
L’ho riscritto 11 volte, in 3 anni e più. Una volta totalmente. Diciamo che ci sono libri che si scrivono veloci e sono esterni da te, altri che sono troppo dentro di te. Altri ancora, ed è il mio caso, hai tra le mani una storia che lega il mondo esterno con quello che sei tu, e lo fa perfettamente. Bisognava mettere ordine e farla il più equilibrata possibile.
Il Campiello ti ha cambiato la vita?
No, però mi ha dato più visibilità. In Italia i premi servono, soprattutto quelli autentici come il Campiello. Non mi aspettavo di entrare in cinquina, ha fatto molto bene al libro.
A cosa stai lavorando ora?
A nulla di narrativo. Non mi va per niente, scrivere è una faticaccia. E l’Elefante è stato un libro pachidermico per certi versi, dovrò aspettare ancora.