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Corridoio nord

Il reportage del nostro Lorenzo Bagnoli ripercorre il viaggio dei siriani attraverso l’Europa. Meta: la Svezia, passando per Francia e Danimarca, dopo i respingimenti al confine austriaco che “bloccano” la via tedesca.

9.500 EURO
Questo il prezzo della salvezza, pagato ai trafficanti, per una famiglia di 4 persone in fuga da Aleppo a Stoccolma. 

MILANO – Quanto costa un’odissea? Quanto costa salvare la propria pelle dalle bombe? Fino alla penultima tappa del viaggio lungo il Corridoio Nord, quella rotta che attraversa l’Europa da Sud a Nord, la domanda resta sospesa a mezz’aria. Chi è ancora in corsa non sa fino a che punto dovrà mettere mano ai suoi risparmi. Alaa invece lo sa. È arrivato da sei mesi a Malmo ed ormai si sente già uno svedese. Tra cinque anni spera che il suo sentimento si trasformi in un passaporto dell’Unione europea. Sul suo viso punteggiato da una barba cortissima, bianca e grigia, si legge la serenità di chi sa di essere scampato alla morte. E non ha più paura a raccontare la sua storia. “Vivo in un sobborgo di Malmo, ho degli amici qui. Ho tutti i documenti validi per cercare un lavoro, mi hanno insegnato lo svedese e l’inglese. Ora posso ricostruirmi una vita”, racconta. “Chi ha i soldi arriva facilmente. Per gli altri, invece, è quasi impossibile”. Il suo viaggio, per quattro persone, è costato 9.500 euro. Finiti nelle tasche dei trafficanti che smerciano uomini in tutta Europa.

Piovono bombe, su Aleppo. Alaa e la sua famiglia non possono più restare. Ma Aleppo è una prigione, da cui fuggire è difficile. Almeno fino a quando non si corrompono i secondini alle frontiere. L’odissea comincia con 500 euro pagati al confine con la Turchia. C’è poi il passaggio fino ad Alessandria d’Egitto, da dove partono le carrette del mare a Lampedusa. Al conto si aggiungono altri 500 euro. Da Alessandria il “biglietto” per salpare costa circa 2.500 euro. Alaa e la sua famiglia naufragano e scampano d’un soffio l’appuntamento con la morte. Erano su una delle barche affondate in ottobre. Risalgono l’Italia in treno, perché sanno che Milano è la porta d’Europa. E qui il viaggio di Alaa ha avuto la sua svolta. Arriva in Stazione centrale, come tutti: “Ti avvicinano tante persone per proporti le traversate dell’Europa. Dipende da quanto sei disposto a pagare”. Fino a seimila euro, per Alaa, si può fare. Tanta è la richiesta di un gruppo di falsari che a Milano gli procura quattro documenti falsi. Quei pezzi di carta, secondo cui Alaa è di nazionalità greca, gli hanno risparmiato la fatica di risalire l’Europa, le palpitazioni ad ogni frontiera, la paura di non farcela. In fondo ne è valsa la pena. “Siamo partiti da Malpensa, volo diretto per Stoccolma: nessuno ci ha detto niente”.

La risalita del corridoio Nord finisce quando Alaa spegne la sigaretta sul marciapiede di fronte al Migrationsverket e scandisce: “Ho tutto qui. Qui sanno cosa sono i diritti umani, mi trattano come una persona e non come una pietra”. È questo il sogno che spinge tanti verso Nord. La memoria corre ai due momenti più tragici del suo viaggio. In Egitto, quando ha assistito ai pestaggi dei trafficanti di Alessandria, che volevano incutere il terrore in chi ancora doveva prendere il mare. E in mare, quando pensava di non farcela, quand’era certo che quel legno infossato dal peso delle 250 persone a bordo sarebbe diventata la sua bara in fondo al Mediterraneo. Scaccia quelle immagini dagli occhi con un battito di palpebre. Apre il viso olivastro in un sorriso cordiale e porge la mano per salutare. “In bocca al lupo”, dice. Un augurio a tutti coloro che nonostante le sventure già subite, le sofferenze, la paura, la mancanza di denaro, il timore di finire in carcere o essere rispediti indietro, risaliranno lungo il corridoio Nord, in cerca di quella pace che Alaa ha trovato in un sobborgo di Malmo.

Redazione: Lorenzo Bagnoli, 4.10.013

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ROTTE PARALLELE

A Malmo (Svezia) ritrovo Ibrahim, conosciuto a Milano. Anche lui è passato da Parigi, ma le frontiere le ha attraversate a piedi.

MALMO – “Ehi, italiani?”. Ibrahim, classe 1986, da Aleppo, è arrivato da poche ore alla stazione di Malmo, in Svezia. Mi riconosce: ci siamo visti al centro profughi allestito dal Comune di Milano in via Aldini. Abbiamo percorso due rotte parallele, Ibrahim ed io. Il ragazzo siriano è andato prima a Ventimiglia e poi in treno ha attraversato la Francia, con destinazione Parigi. Da lì ha preso un autobus simile a quello che ho preso io, diretto a Malmo, porta d’ingresso via mare per il paese scandinavo. Ma le frontiere non si passano tutte d’un fiato, come può facilmente fare un cittadino dell’Unione europea. Quando si viaggia senza passaporto, come Ibrahim, si rischia di essere fermati. Allora si scende e si aspetta di capire il momento buono e si varca la frontiera a piedi. A Liegi, Ibrahim ha passato una notte in un dormitorio e ha aspettato poi il momento propizio. Nessuno t’ha fermato? Eppure i controlli ci sono ad ogni frontiera, prima dell’arrivo in Danimarca. Ibrahim guarda verso il cielo e scioglie il suo viso contratto in un largo sorriso. Il suo giubbotto grigio non lo riscalda a sufficienza. I chilometri attraversati con il cuore in gola l’hanno sfiancato, è evidente. Ma vuole partecipare comunque alla discussione e alle volte ferma e corregge il suo traduttore, Tarif.

Tunisino, sui 40 anni, Tarif è quell’uomo di mondo che si incontra in ogni porto di mare, un personaggio romanzesco, che ha vissuto in mezza Europa, che parla correntemente arabo, italiano, francese, inglese e svedese. In Italia ci è stato diverse volte “sempre a Nord”. Da tre mesi, ufficialmente, lavora in una pizzeria di Malmo. Ma sembra conoscere fin troppo bene i meccanismi che sottostanno gli spostamenti di esseri umani. E specifica: “Non tutti sono trafficanti di uomini, ci sono tante persone che accompagnano gli ultimi arrivati dagli amici”. Forse Farit è uno di questi: non s’arricchisce con il passaggio degli uomini, semplicemente li accompagna nei posti sicuri e si fa pagare qualcosa per il disturbo, nulla di più.

Non tutti gli arrivati hanno, nella sventura, la fortuna di Ibrahim: giungere come un fantasma in Svezia, senza che nessuno si sia accorto della tua presenza, significa non correre il rischio di essere rispedito indietro. “Invece la metà dei nuovi arrivati è stata rispedita in Italia”, racconta Farit. Ci scambiamo i contatti: Tarif e Ibrahim vogliono partire il prima possibile. Ci rivedremo a Stoccolma, è la promessa. 

Redazione: Lorenzo Bagnoli, 4.11.2013
Credits foto: Germana Lavagna

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LA CASA TRAMPOLINO

A Copenaghen nel centro sociale dove i rifugiati trascorrono le loro giornate, in attesa (a volte per anni) della concessione dell’asilo.

COPENAGHEN-  Da fuori l’edificio è anonimo, in una via semibuia a Nørrebro, quartiere nord di Copenaghen. Dentro c’è un mondo colorato e informale, dove regna una confusione che a modo suo ha un senso. Si chiama Trampolinhuset e già il nome ha un suo perché: “Il primo ministro ha detto che la Danimarca deve dare una spinta ai richiedenti asilo. Un nostro membro storico, richiedente asilo da nove anni, ha detto che non se ne fa nulla: ha bisogno di un trampolino” spiega Morten Goll, di mestiere videoartista devoto alla causa dei rifugiati tanto a fondare questo spazio sociale. Il lavoro è tanto e Goll finisce sempre risucchiato in un vortice fatto di consulenze legali e accoglienza di rifugiati nella casa: oggi sono circa 200. Goll è aiutato da quattro operatori e circa 50 volontari, che animano la Trampolinhuset con workshop, incontri formativi sul tema dell’asilo, corsi di arabo, danese e inglese, partire di calcio e feste. Oltre a tre sportelli legali con cui aiutano nelle pratiche i richiedenti asilo. 

All’ingresso c’è il bancone del caffè dove paga solo chi ha abbastanza soldi, per gli altri è tutto gratis. Alla destra dell’ingresso si allarga la sala principale, che il venerdì sera diventa una pista da ballo. Il corridoio tra i due ambienti ospita da una parte disegni e opere di alcuni dei richiedenti, mentre dall’altra parte una minuscola staccionata bianca ricava in qualche modo uno spazio giochi per i bambini. L’andirivieni continuo ha come sottofondo un vociare confuso, di lingue provenienti da ogni latitudine.

“Siamo nati perché la politica per 15 anni ha usato i rifugiati come capro espiatorio per convincere i danesi che erano loro la causa della disoccupazione – continua Goll-. Non possiamo accettare che ci siano persone nel nostro Paese parcheggiate in mega strutture di accoglienza, ma abbandonati a se stessi”. La mente corre all’emergenza nord Africa italiana, al modo con cui il governo Berluconi ha gestito l’arrivo dei profughi in fuga dalle bombe in Libia. Ma questa è la Danimarca, uno dei Paesi che nell’immaginario di chi sta a sud delle Alpi dovrebbe accogliere meglio chi scappa da bombe e persecuzioni. Invece Mortgen Goll racconta che il governo di Copenaghen spende 20 milioni di euro l’anno per un sistema d’accoglienza inutile: “I profughi sono liberi di lasciare i centri, a decine di chilometri dalla città, ma non hanno i soldi per  farlo”, continua Goll. Il documento che la polizia rilascia agli ospiti delle strutture, gestite dalla Croce rossa danese, non permette di cercare un impiego. Si deve attendere la risposta dalle autorità e il limbo può durare anche dieci anni, sostiene Goll. “Priviamo queste persone della possibilità di avere uno scopo nella vita. È disumano, per quanto le condizioni di vita all’interno dei campi siano più che dignitose”, conclude il fondatore  di Trampolinuhset.

Lo conferma anche Tatouz, 24 anni, da Aleppo. Da tre anni è senza lavoro.Dovrebbe vivere in un campo, ma grazie alla Trampolinhuset è riuscito a farsi degli amici e a fidanzarsi con una ragazza danese. “È una sofferenza sentirsi inutili per così tanto tempo”, racconta. La sua richiesta d’asilo è stata rispedita al mittente con la motivazione che in Siria non c’era alcun conflitto nel 2010, quando è arrivato in Danimarca. I primi ad andarsene e a trovarsi la porta dell’asilo chiusa in faccia sono stati i curdi come Tatouz, uomini e donne senza Stato, malvoluti da tutta la regione. “Mi hanno rifiutato la domanda  perché pensano che sia del Pkk (partito dei lavoratori curdi iscritto dal Dipartimento di Stato americano tra le organizzazioni terroristiche mondiali). Non è colpa mia se dei parenti ne fanno parte. Io non ci ho mai avuto nulla a che spartire”, si difende. La polizia danese vorrebbe riportarlo in Siria, ma non può per  via della guerra. Così Tatouz resta sospeso: non più siriano e nemmeno danese, non appartiene più a Damasco e non ancora a Copenaghen. «Il 99 per cento dei siriani ora ottiene l’asilo in tempi rapidissimi», dice con un po’ di fastidio. Paradossale: Tatouz avrebbe gli stessi diritti degli altri ma l’essere arrivato troppo presto lo condanna ad essere sopravanzato nella scala delle priorità dagli ultimi, ormai conclamate vittime di guerra. Lui, invece, è ancora ostaggio della burocrazia. Per  fortuna che alla Trampolin c’è una grande famiglia che gli chiede di dedicare il suo tempo per la vita comunitaria in cambio della disponibilità degli spazi. Così almeno ha la sensazione di essere qualcuno, di continuare ad avere un’identità.

Per coprire le spese e gli stipendi dei quattro assunti, Trampolinuset riceve un finanziamento di circa 500mila euro dalla Oak foundation, ente benefico di base in Gran Bretagna. Non è detto che il budget sia stanziato anche il prossimo anno: la fondazione giudica il progetto “controverso” per il target e i metodi di democrazia diretta utilizzati. Ma Goll non si dà per vinto: “Abbiamo fatto pressione sui partiti affinché mettessero da parte qualche soldo per finanziare attività come Trampolinhuset”. L’esecutivo ha messo da  parte nel bilancio poco più di 1,3 milioni di euro. “Ora, con l’assegnazione del bando per il 2014, capiremo cosa la politica pensa di noi”, conclude Gross.

Redazione: Lorenzo Bagnoli, 2.11.2013
Credits foto: Germana Lavagna

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UMANITA’ IN TRANSITO

Sull’autobus da Parigi a Copenaghen, Ahmed mi racconta la sua storia di profugo libico in giro per l’Europa da un mese e mezzo. 

COPENAGHEN – Da quando ha messo piede a Malta, ha trascorso un mese in giro per l’Europa, in  cerca d’asilo. Ahmed, 22 anni, a Tripoli lavorava in un bar: “La situazione in Libia è ancora molto pericolosa, dovevo andarmene anch’io”, racconta. Così appena l’ambasciata maltese a Tripoli, l’unica ancora rimasta attiva insieme a quella italiana, gli concede un visto turistico valido per espatriare, comincia il gioco dell’oca con in palio un posto sicuro per vivere in Europa. Come ha ottenuto il foglio di carta con cui essere della partita? Ahmed glissa: dice solo che è stato difficile. Servono tangenti? No, risponde. Più che denaro, spiegano gli operatori delle associazioni che fanno accoglienza in Francia, servono buone referenze. Nomi che sappiano spalancare le porte. Forse è anche il caso di Ahmed.

Incontro Ahmed sull’autobus che attraversa l’Europa del nord, da Parigi a Stoccolma. Seduto in fondo, scruta il finestrino pensieroso. Comincio a parlarci per caso, mentre smanetta sul cellulare quando il presunto wifi dell’autobus non dà segnali di vita. “Sto usando la mia sim”, dice. Passa il tempo connesso al telefonino, come in attesa di qualche notizia. Intanto mi racconta la sua storia.

Da Malta è atterrato a Stoccolma, con un aereo che l’ha portato dai suoi amici che nei mesi prima erano riusciti ad ottenere asilo in Svezia. Lui ha compilato la stessa domanda, solo che ora per i libici ottenere asilo non è così automatico. Ora sono i siriani quelli ad avere la corsia preferenziale. La sua domanda ha avuto un primo esame e l’esito è stato negativo: “Neanche io ne so molto – spiega Ahmed – mi hanno solo detto che devono ancora fare delle verifiche sulla mia identità”.

Il problema di Ahmed è che il suo visto turistico scade il 17 novembre. In attesa di un sì o un no definitivo dalla Svezia ha allora cercato di giocare un’altra carta. Ha preso un autobus diretto a Parigi per inseguire il sogno che l’ha condotto fuori dall’Africa: imparare l’inglese. “In Libia solo in pochi lo parlano – continua – e hanno tutti un lavoro ben retribuito”. Da Parigi, è salito su un altro autobus in direzione Calais. Nella città sulla Manica,  Ahmed ha trovato i moli trasformati in campi profughi: “C’erano decine di siriani che speravano di salpare. A me hanno chiesto 500 euro per arrivare clandestinamente in Gran Bretagna, nel bagagliaio di una macchina, ma ho rifiutato per il costo e perché troppo pericoloso”. 

Non restava altro ad Ahmed che tornare indietro verso la Svezia, dove attraverso i suoi amici riesce quantomeno a fare qualche lavoretto da giardiniere. Il futuro? Non è nemmeno nei pensieri di Ahmed: vive alla giornata, scorrendo su Facebook le fotografie della Libia che si è lasciato alle spalle. 

Lo sgangherato autobus Eurolines, che per percorrere 1.300 chilometri impiega 26 ore con due guasti al motore nel mezzo, pullula della nuova umanità del vecchio continente. C’è una famiglia eritrea diretta a Malmo, in Svezia, dove vive; c’è Victorio, un ex funzionario dell’ufficio immigrazione svedese, due musicisti romeni in tappa ad Oslo per un concerto di clarinetto. Il viaggio è massacrante, le pause tra una stazione e l’altra non durano più di dieci minuti. Dopo Parigi si passa per il Belgio, prima Bruxelles e poi Liegi, s’infila la Germania da Colonia e si risale lungo Hannover, Dortmund, Amburgo, poi Copenaghen, quando ormai il cielo s’è colorato di rosa. È qui che Ahmed scende, proseguendo il viaggio senza di noi. Saluta con un cenno, promettendo di rifarsi vivo su Facebook quando saprà cosa gli accadrà in futuro.

Redazione: Lorenzo Bagnoli, 1.11.2013
Credits foto: Germana Lavagna

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BISTROT SYRIEN

Incontriamo Anas e Jasem nel locale parigino che ospita anche di notte i profughi siriani. 


PARIGI – “Non è stata una mia scelta. Avessi potuto, avrei chiesto un paese scandinavo”. Questa frase la scandiscono Anas e Jasem, studenti universitari siriani di 22 e 27 anni, arrivati in Francia per riprendere gli studi dopo tre anni di conflitto. Sono a Parigi quasi per caso. L’uno, Anas, ha parenti in Francia da ma decina d’anni: sono loro la garanzia per il visto di transito a Parigi. Il lasciapassare che permette di partire per l’Europa. L’altro Jasem (in foto), ha avuto in sorte di lavorare con un giornalista francese ferito durante il conflitto. Come unico testimone dell’evento, è stato chiamato a Parigi. È stato in prigione tre volte a Damasco, per aver preso parte alle manifestazioni anti Assad. “Se fossi finito in un campo profughi in un Paese confinate non sarei mai partito. Spero di poter rientrare a Damasco presto”, spiega. Al contrario, racconta, il flusso di persone dalla Turchia all’Egitto e da lì alle barche della speranza che attraversano il Mediterraneo si sta nuovamente rinforzando. Lo raccontano i media locali. Chi parte dalle coste egiziane lo fa perché le condizioni non sono più sostenibili. Come tutte le sere i due ragazzi stanno al bistrot Syrien, un locale in boulevard Bonne nouvelle che in alcuni casi ha anche dato riparo ai profughi, almeno per qualche giorno. Le pareti del locale sono tappezzate di scritte anti Assad.

Secondo le stime del Governo, sono tremila i profughi siriani nei confini francesi. Non vengono censiti però quelli che l’hanno attraversata, per la Germania o i Paesi scandinavi. “Il modello migratorio di Parigi è quello dell’assimilazione: un rifugiato può restare solo se ha legami con il Paese è diventerà un buon francese in futuro”, spiega Nizar Touleimat, franco siriano dell’associazione “Democratie età entrasse en Syrie”. 

Il sentimento comune dei profughi è di sentirsi parcheggiati in Europa solo in attesa che la tempesta che si è abbattuta sulla Siria passi in fretta. Perché rinunciare alla propria appartenenza? “Non credo che tornerò qui dopo che avrò avuto l’opportunità di andarmene”, continua Jassen. Danimarca e Svezia offrono invece i mezzi per autosostenersi senza doversi legare per sempre al destino di un paese. Mohammed racconta di Abood, un amico che sta in Svezia, Paese che ha raggiunto in estate dopo un viaggio lungo tutta l’Europa. È a Parigi per salutare alcuni amici siriano palestinesi. “Gli hanno preso le impronte in Italia – aggiunge l’amico -. La polizia svedese ha chiesto a quella italiana una conferma della sua identità, ma finora non ha ottenuto risposta”. E Abood spera che Roma continui ad essere così poco solerte altrimenti il suo viaggio lungo il corridoio Nord sarà stato inutile.

Redazione: Lorenzo Bagnoli, 31.10.013
Credits Foto: 
Germana Lavagna

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PARIGI– La Francia i profughi siriani non li vuole. E si è organizzata perché non possano fermarsi. I suoi centri di accoglienza sono sempre pieni e l’unica assistenza che ricevono è grazie alle associazioni. Secondo i dati aggiornati al settembre 2013, i siriani che finora hanno presentato domanda d’asilo sono appena 588. “Eppure non ci sono più posti nei centri d’accoglienza, c’è una grande penuria di alloggi -racconta Michel Morziere, segretario generale dell’associazione Revivre, fondata dieci anni fa per sostenere in Francia gli oppositori del regime di Assad-. Per evitare che i nuovi arrivati stiano in strada, abbiamo creato una rete di volontari che li ospitano almeno per i primi giorni. Ma il problema è che il nostro Paese non governa la questione dei profughi. Da sempre”. Revivre in questi mesi ha accolto, solo a Parigi, circa 500 profughi siriani arrivati nei modi più disparati: auto, treno, aereo. Un centinaio ha presentato domanda d’asilo nella capitale, gli altri si sono spostati in altre zone della Francia, mentre qualcuno ha puntato più a Nord, alla Svezia. 

L’unico vantaggio di cui usufruiscono i siriani è un tempo d’attesa ridotto a tre mesi (rispetto ai 12 mesi ordinari) per l’accoglimento della domanda d’asilo. L’accompagnamento dei profughi in Prefettura, il loro inserimento nella società, è nelle mani dei loro connazionali della diaspora. Il Comune di Parigi ha messo a disposizione uno spazio per Revivre, al XX arrondissement. Nulla di più. Il governo Hollande invece ha dato la sua disponibilità all’Unhcr per accogliere 500 rifugiati politici che vivono nei campi profughi nei Paesi limitrofi alla Siria, che però non sono ancora arrivati. “Mi chiedo se sarà in grado di garantire a queste persone i loro diritti”, conclude Morziere.

La Francia è un porto di mare dove sbarcano profughi politici, che da tempo intessono rapporti con la Repubblica transalpina, ma anche fuggitivi che dopo Lampedusa cercano fortuna oltre le Alpi, oltre a bersagli precisi del regime di Assad e anziani che vogliono ricongiungersi alla famiglia in Europa. Quattro tipologie che non sempre collimano con quanto conosce l’Italia, con l’immigrazione che affolla le coste di Lampedusa. In Francia la scelta è anche legata alla storica presenza di una comunità siriana. “La città è piena di medici e dentisti originari di Damasco”, spiega Michel Morziere. E sulla scorta delle violenze patite dai loro connazionali in patria, i franco-siriani, tra cui Michel Morziere, hanno dato vita a Revivre, che all’inizio aveva scopi politici, mentre ora si trova costretta a occuparsi dell’accoglienza. “Non si erano mai visti siriani sbarcare a Lampedusa per un futuro migliore”, commenta sconsolato Morziere. Di fatto le frontiere tra i Paesi dell’Unione europea sono state ristabilite, con controlli sui passeggeri di auto, treni e pullman (vedi lancio di lunedì 28 ottobre). “Ma questo sta contribuendo a rinforzare la criminalità organizzata -sottolinea Morziere-, che fa attraversare i confini a chi sogna l’Europa”. Si pagano circa 4 mila euro per il “passaggio” da Damasco a Parigi, ma il prezzo può lievitare fino a 30 mila, nel caso in cui ci sia bisogno anche di documenti falsi. 

“Il Governo -aggiunge Jean Pierre Alaux di Migreurope, rete internazionale di associazioni che si occupano di immigrazione (in Italia Arci, Asgi e Naga)- ha fatto di tutto per evitare che arrivassero numeri di siriani consistenti”. Parigi ha introdotto da gennaio 2013 un “visto di transito”: in altri termini, anche chi intende solo transitare per la Francia deve chiedere un visto. Una complicazione in più, che scoraggia chi pensa di poter arrivare in Europa direttamente da Damasco. La strategia del governo Hollande, secondo Alaux, è quella di fare terra bruciata intorno al profugo: poca accoglienza e complicazioni burocratiche. Nella speranza che il profugo decida di proseguire il viaggio verso altri paesi europei. 

Redazione: Lorenzo Bagnoli, 29.10.013
Credits Foto: Germana Lavagna
 

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FREJUS/PARIGI
 – “Ha il visto?” domanda la poliziotta. “No”, replica l’uomo con l’aria rassegnata di chi sa già come andrà a finire. “Dove abita?”. Silenzio. “In Francia o in Italia?”. “In Francia”. La parola si rompe a metà, come se la voce non fosse in grado di sorreggerla fino in fondo. L’autobus è appena arrivato alla frontiera con la Francia, dopo quattro ore di viaggio da Milano. Una volante della gendarmeria ferma la corsa per il controllo di routine. È a questo punto che cominciano i problemi per l’uomo seduto alla quinta fila.

Il suo sguardo, in bilico tra colpevole e disperato, si perde all’orizzonte, mentre giù dal mezzo due poliziotti , un uomo e una donna, confabulano con in mano il suo documento e quello di altri tre passeggeri: una coppia di cingalesi e un africano. Quando i gendarmi tornano a bordo, la donna distribuisce i documenti, mentre l’uomo chiama a sé il pakistano seduto alla quinta fila, piegando indice e medio. Raccatta il suo zaino nero e scompare nel buio, insieme ai poliziotti. Sulla quarantina, vestito con un golf beige a strisce, tra le mani aveva un libro sull’Islam, prima di salire a bordo.

“Lo porteranno alla polizia italiana, dove gli faranno un verbale per ingresso irregolare. Dicono che il suo documento fosse truccato”, spiega il conducente. I respingimenti alla frontiera sono storie di ogni giorno. Di casi così, racconta, ce ne sono ad ogni viaggio. Sul mezzo della sua collega, questa mattina, ne hanno fermati cinque. Molti altri tentano di uscire dall’Italia facendosi portare in auto con gli “scafisti di terra” che trovano a Milano (vedi lancio del 25 ottobre). “La Francia non vuole più ospitare le miserie del mondo”, sintetizza il pilota della linea Id bus.

La Fortezza Europa diventa inespugnabile man mano che si avanza verso Nord. L’Unione senza barriere pare una fantasia. Da luglio Parigi ha introdotto nuove norme sempre più stringenti per l’ottenimento di un visto. Il Paese ha dato disponibilità all’Alto commissariato Onu per i rifugiati per accogliere 500 profughi provenienti dai campi di Libano, Giordania è Turchia. Il problema è sapere cosa accadrà a chi ha già provato la sorte da solo. Troverà accoglienza?

Redazione: Lorenzo Bagnoli, 28.10.013
Credits Foto: Germana Lavagna

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MILANO – Mille euro ciascuno, prendere o lasciare. Si parte a mezzanotte e mezza dalla zona di piazzale Loreto e si arriva il giorno dopo. È il viaggio che un trafficante egiziano ha offerto ad Ahmad, suo fratello e le sue due figlie di 7 e 21 anni. Quattromila euro per 1.100 chilometri, con destinazione Amburgo. Queste sono le tariffe dei passeur di terra, un microcosmo criminale che affolla tutte le notti della Stazione Centrale di Milano, dall’inizio di settembre. I passeur si dividono in due gruppi: chi porta i profughi fuori dall’Italia e chi si accontenta delle briciole, con spostamenti all’interno della città a prezzi comunque folli. Per 15 minuti di strada chiedono 30 euro.

Il trafficante ha abbordato la famiglia di Ahmad in stazione. Il profugo voleva partire con il treno, ma poi il passaparola gli ha messo paura: dicono che ormai dalla frontiera non si passa, che i controlli sono sempre più frequenti. Ahmad e la sua famiglia sono stati ospiti per dieci giorni a casa di una delle volontarie italiane che alla Stazione Centrale cercano di aiutare i profughi. Il passeur di Ahmad è andato un paio di volte anche a casa della volontaria, per tranquillizzare tutti sulla sua buona fede. “’Siamo fratelli viaggiamo insieme’, diceva sempre – ricorda la signora -. Siccome usavano il mio telefono per comunicare, ora sono assillata di chiamate da tutti i trafficanti di Milano che mi chiedono se ho ospiti”. Il giorno della partenza la signora s’è trovata in casa due rumeni: erano i conducenti della vettura. Della stessa nazionalità è anche l’automobile con cui è partito il gruppo. La signora si è segnata tutto, con il timore di non rivedere più quelli che per dieci giorni sono stati i suoi ospiti.

Di questo viaggio verso Amburgo, la signora non sa nulla. Sa solo che si è concluso e che finalmente Ahmad è dove voleva essere. Già il 15 ottobre aveva provato a lasciare Milano dalla Stazione centrale, con un Tgv diretto a Parigi. A bordo c’erano 15 siriani. A Modane, appena oltre la frontiera con la Francia, sale la gendarmeria. In treno c’è una gran confusione: in 11 scappano a piedi, dalla stazione. La famiglia di Ahmad rimane a bordo. Li fermano perché il loro documento, il passaporto che hanno in mano, non è valido per l’espatrio: lo conferma un doppio verbale redatto a Modane e a Bardonecchia. Le forze dell’ordine francesi effettuano il fotosegnalamento e li rispediscono in Italia. I biglietti erano stati procurati loro da un “passeur” tunisino, che s’era approfittato di loro chiedendo, anche in quel caso, mille euro a persona. Non avevano potuto farsi aiutare dall’amica italiana: erano appena scesi a Milano e già volevano ripartire. Il primo che prometteva un modo per oltrepassare il confine era sinonimo di salvezza. Così si sono fidati. 

Il 10 ottobre la famiglia era sbarcata a Catania: erano in 263 i migranti a bordo di una carretta del mare. Per fortuna sono arrivati tutti sani e salvi. In Egitto i trafficanti avevano però fatto razzia degli ultimi risparmi di tutta la famiglia di Ahmad: hanno fatto sparire 40 mila euro. Qualche parente ancora in Siria è riuscito a rispedire altri soldi in Italia, una volta giunti a Milano. 

La signora che ha ospitato Ahmad è ancora sconvolta. Racconta la storia della “sua famiglia” ossessivamente. Ed ogni sera trascorre qualche ora in Stazione Centrale per aiutare gli ultimi arrivati. “Qui nessuno dice niente, sembra tutto normale”, si sfoga. Insieme a lei ci sono sempre altri volontari legati alle associazioni dei musulmani milanesi: “Nel resto d’Europa non c’è niente di simile – spiega Davide Piccardo del Caim, coordinamento associazioni islamiche di Milano – per le associazioni sarebbe come sostituirsi allo Stato in un compito che è dovuto ai richiedenti asilo. Ma si sa, in Italia è sempre tutto più complicato”. 

Redazione: Lorenzo Bagnoli, 25.10.013

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