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Morte di un uomo felice

L’ultimo libro di Giorgio Fontana (Morte di un uomo felice, Sellerio) racconta la storia di Giacomo Colnaghi, un giovane magistrato cattolico che, all’inizio degli anni Ottanta, indaga sul terrorismo che ancora insanguina e lacera l’Italia, seguendo una sua personale idea di giustizia, nonostante i rischi che questo comporta – e che in qualche modo già il titolo del libro anticipa. Alla vicenda di Colnaghi se ne intreccia in particolare un’altra, una storia che corre parallela a questa, separata dal tempo: quella del padre del magistrato, partigiano comunista ucciso prima di conoscere il figlio. Non solo un romanzo sulla giustizia, quindi, ma un’opera ben più complessa, a dispetto della sua brevità.

(Di Giorgio Terre di mezzo ha appena riporta in libreria Babele 56, che verrà presentato venerdì 21 novembre alle 19 alla libreria Gogol&Company di Milano).

Nel libro affronti due grossi temi: quello della giustizia e quello del rapporto padre/figlio. Come mai hai deciso di lavorare su questi argomenti, e in particolare: perché proprio il terrorismo e i partigiani? Come ti sei preparato?

In realtà non ho pensato ad altro che a scrivere di Giacomo ed Ernesto Colnaghi; per me non è un libro su due periodi storici, né – anche se sicuramente lo è in parte – un libro sulla giustizia, ma in primis appunto il rapporto tra un padre e un figlio. Poi ovvio, ci rientrano tantissime altre questioni e un sacco di nodi storici delicati; proprio per questo il lavoro di ricerca è stato molto più ampio rispetto a qualsiasi altro mio romanzo. Nei tre anni di stesura ho impiegato gran parte del tempo a studiare e leggere qualsiasi tipo di fonte che potesse servirmi: solo una piccolissima parte è stata indicata nella nota finale. Il lavoro è stato guidato dalla logica dell’analisi a 360 gradi, specie per il periodo storico connesso al magistrato Giacomo: un giorno mi leggevo gli archivi di “Lotta continua”, quello dopo quelli del “Corriere”; il mercoledì sera analizzavo una risoluzione strategia delle Br e il giovedì rileggevo la storia di Guido Galli; monografie e studi erano sempre sotto mano… E così via, e così via. Credo fosse proprio una questione di responsabilità storica e morale. Anche se, come dicevo, a me come narratore interessavano – e interessano solo – i personaggi: non il momento storico o le ideologie.

A proposito di questo: sia partigiani sia terroristi lottavano – ognuno secondo la sua visione e in contesti storici radicalmente diversi – per la “liberazione” da un oppressore (perdona l’estrema sintesi). Colnaghi in qualche modo è lo snodo tra queste due visioni in realtà così diverse. Qual è il tuo giudizio in merito?

Colnaghi soffre molto nel vedere la memoria del padre (partigiano comunista) usata come rivendicazione da parte del terrorismo di sinistra; ma il suo scacco personale è che non può parlare di questo con il padre, che fu ucciso quando aveva un anno. Uno degli obiettivi del libro era proprio inchiodarlo a tale tormento. (Sì, sono stato un po’ crudele in questo senso con il povero Giacomo…).
Quanto alla questione storica, credo sia necessaria una grande chiarezza: i contesti erano appunto radicalmente diversi, e a mio avviso ogni parallelismo fra un’esperienza e l’altra è un’espropriazione. Da un lato abbiamo una situazione di guerra vera e propria, in cui un movimento con vasto sostegno popolare si muove per liberare il Paese da un esercito invasore e dai residui del nazifascismo. Dall’altro abbiamo un’avanguardia che vuole porsi a guida delle masse operaie per portarle alla rivoluzione comunista tramite l’uso della “propaganda armata” prima e dell’omicidio politico poi (sempre più feroce e insensato), ma in una situazione di stato democratico. E non è un caso se le masse non hanno seguito questa idea velleitaria e brutale di scontro militare, che a conti fatti ha lasciato solo una scia di sangue innocente – oltre a bloccare tutte le forme di rinnovamento sociale che quegli anni portavano avanti. Che poi la Repubblica mostrasse molto spesso un volto autoritario è innegabile: basti pensare al coinvolgimento di una fetta delle istituzioni alla strage di piazza Fontana, ai depistaggi sistematici, ai tentativi di colpo di stato… Ma, come dicono i miei amati anarchici – e come faccio ripetere a Colnaghi – ci deve essere coerenza fra mezzi e fini. Altrimenti è tutto perduto.

Del libro mi ha colpito la decisione di raccontare un magistrato cattolico, chiamando quindi in scena anche la giustizia divina. Perché questa scelta?

Per dare un ulteriore livello di complessità al personaggio Colnaghi. E perché in Per legge superiore, dove il magistrato veniva introdotto in qualche scena, avevo già deciso così! In realtà è stata una scelta utile: benché io sia ateo, il tormento religioso della contraddizione fra il giudizio pubblico e il precetto divino del “non giudicare” mi affascina molto. Poi credo ci sia una certa tradizione di naturalismo cattolico lombardo che ha influito in maniera inconscia: penso ad esempio a Testori.

Infine: su cosa stai lavorando ora? Il filone percorso con gli ultimi due romanzi avrà ancora spazio nelle tue storie? E – questo te l’hanno chiesto tutti, quindi perché non io? – come immagini il tuo lavoro di scrittore dopo aver vinto il Premio Campiello?

Innanzitutto: il dittico sulla giustizia si ferma qui; non ci saranno altre storie con Doni o Colnaghi o altri magistrati protagonisti. Ho qualche idea per due romanzi molto diversi (anche in termini di impegno e mole) e per un paio di saggi – l’idea di tornare alla scrittura saggistica mi affascina molto. Ma non credo mi metterò di nuovo alla mola prima della fine dell’inverno: ho davvero tanti impegni e poca lucidità, al momento. E con questo rispondo anche alla tua ultima domanda: il mio lavoro di scrittore non cambia di una virgola; quello che mi tiene sveglio la notte sono sempre le frasi che non girano, non altro. Credo però che il Campiello mi consentirà di prendere qualche decisione per alleggerire un po’ il carico di lavoro quotidiano e dedicarmi con maggiore tranquillità alla scrittura.

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    Negli ultimi anni ha portato in Italia le serie di Dory Fantasmagorica e Cane Puzzone, ha pubblicato più di 40 guide ai cammini italiani e ha dato alle stampe i testi di Paolo Cognetti e Erri De Luca impreziositi dalle illustrazioni di Alessandro Sanna, e di Wislawa Szymborska con Guido Scarabottolo, e Claudio Piersanti con Lorenzo Mattotti.

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