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Il Demone, e la scrittura come testimonianza

Il demone a Beslan di Andrea Tarabbia è uno dei libri più potenti – per temi e scrittura, per profondità – uscito nel 2011, e forse negli ultimi anni. Un romanzo che ricostruisce, trasfigurandola, la strage della scuola Numero 1 a Beslan nel 2004.

Il libro esplora a suo modo la tematica del male – e quella del dolore: inferto e ricevuto – cercando di metterne sul piatto le origini. Da quale esigenza e con quale obiettivo ti sei messo a scrivere un romanzo del genere?

Non parlerei di obiettivi: non me ne pongo mai quando comincio a pensare a un libro nuovo. Se mi ponessi un obiettivo che va al di là del semplice tentativo di fare un libro “bello” o in cui, comunque, dia il massimo che posso dare, rischierei molto probabilmente di fare un libro a tesi – che è la cosa che più di ogni altra porta la letteratura a un punto morto. Diverso è il discorso sull’esigenza, ma è una cosa difficile da spiegare: i fatti di Beslan mi hanno lasciato una ferita. Per molto tempo, non ho pensato che avrei potuto scriverci un romanzo. Poi, all’improvviso, mentre leggevo, solo per saperne di più, dei reportage su quei tre giorni, ho capito che, forse, potevo tentare di parlarne. Quello che è successo nella palestra della scuola n.1 in qualche modo rappresenta, per come la vedo io, una summa terribile del mondo in cui viviamo: vi sono rappresentati le istituzioni, il terrorismo, la Storia che – con tutto il suo carico di violenza e di dolore – ti entra in casa sfondando la porta, la violazione dell’innocenza, il male che l’uomo è in grado di fare agli altri uomini. Soprattutto, non riuscivo a liberarmi del fatto che molti bambini fossero stati uccisi e che verosimilmente molti di loro, i più piccoli, non sapessero perchéstavano morendo. È una cosa che ancora oggi mi tiene sveglio la notte: l’idea che qualcuno possa farti del male o possa farne a qualcuno che ami senza che tu ti renda conto del motivo. I temi che ho provato a toccare nel libro, poi, sono quelli che da sempre mi stimolano, sia come lettore che come scrittore: il discorso sulla colpa, l’eventuale redenzione, il continuo cambio dei punti di vista e delle voci – che porta a un tentativo per così dire tridimensionale di restituire la realtà -, la morte, la scrittura vissuta e narrata come una forma di testimonianza.

A tratti il lettore potrebbe pensare che tu voglia assolvere i terroristi ceceni, o quanto meno comprenderne le ragioni, ma poi fai dire a uno dei bambini della scuola: “Quello che avete fatto a me e a tutti gli altri… è più grande di quello che avete passato voi… perché noi non sapevamo”. Per semplificare, ma non banalizzare: tu da che parte stai?

È difficile prendere una posizione, e infatti nel libro evito di farlo. Nel Demone, i russi vengono chiamati «l’Impero» e vengono trattati come i veri e unici colpevoli di quello che accade. Non bisogna però dimenticare che la voce narrante è quella dell’unico terrorista sopravvissuto: mentre scrivevo, avevo ben presente il rischio di incorrere nell’errore di fare delle mistificazioni o una sociologia spicciola e che, per evitarlo, avrei dovuto avere il coraggio di parlare dal punto di vista del cattivo. Allo stesso tempo, però, le due voci che “disturbano” Marat, quelle di Ivan e Petja, funzionano come se fossero una sorta di coscienza rimossa, e piano piano lo portano a capire certe cose, certi errori. Soprattutto – è una cosa che tengo a dire perché a volte io stesso non ci faccio caso – Petja, il bambino che dice a Marat la frase che citi, non è un bambino realmente esistito nella palestra: è una proiezione di Marat, è Marat che parla con se stesso.
In ogni caso, è ovvio che, tra una finta democrazia e un popolo che da almeno due secoli invoca l’autodeterminazione, io stia dalla parte di quest’ultimo, ma allo stesso tempo non posso approvare ciò che Marat e i suoi considerano “necessario” per ottenerla, ossia il terrorismo. Tra i vari contendenti, io sto dalla parte di quelli che, senza capire cosa stava accadendo e perché, sono morti nella palestra.

A Beslan non ci sei mai stato. Perché hai deciso di prendere un fatto di cronaca che ha fatto il giro del mondo e di trasfigurarlo fino a farne finzione? 

In parte credo di aver già risposto poco sopra. Non è stata una decisione presa a tavolino: semplicemente, a un certo punto della mia vita ho capito che, finché non avessi scritto questa storia, non ne avrei scritte altre. A lungo ho avuto dei dubbi sul fatto che fosse legittimo, per me, un italiano, entrare dentro quella vicenda e lavorarci. Mi ponevo il problema di come avrebbero reagito i sopravvissuti se mai fossero venuti in contatto con il Demone. Io ho studiato letteratura russa in università, mi ci sono laureato: ho vissuto per dei brevi periodi a Mosca e a Pietroburgo, per studiare e perché sono innamorato di quella terra, della sua storia disperata e della sua letteratura; in un certo senso, con tutti i “se” e i “ma” del caso, sento che quello che succede là mi è vicino, mi interessa e mi identifica. Ma quando ho capito che avrei dato la voce a un assassino ho esitato: volevo partire da quel fatto per provare a misurarmi con dei temi universali, ma c’erano comunque delle persone che erano morte, e altre, che erano riuscite a sopravvivere, la cui vita non sarebbe mai più stata la stessa. Come fare? In qualche modo, sono Petja e Ivan che mi hanno fatto scrivere il libro, è la scena (peraltro presa dal vero) della donna che allatta, che mi ha fatto scrivere il libro, è quella della madre con i figli feriti in un’aula, è il discorso del prete con Marat nel carcere, sono le storie delle vedove nere: questi sono per me i punti nevralgici del Demone – quelli in cui, in mezzo al sangue e all’odio e al dolore, traspare l’amore per gli esseri umani, la pietà. È per quello che l’ho scritto.

Di recente il direttore editoriale di una importante casa editrice mi ha chiesto se, secondo me, avesse ancora senso al giorno d’oggi pubblicare narrativa. Tu come la vedi?

Non vedo che cos’altro si possa pubblicare. A me pare che la narrativa, insieme a poche altre forme d’espressione, sia tuttora il mezzo più grande, efficace e universale che abbiamo per esplorare la realtà, per raccontare il mondo. Basta leggere un articolo di giornale per rendersi conto di come tutto sia diventato narrazione. La saggistica e la varia stanno virando – è una tendenza statunitense, che presto quindi sarà occidentale tout court – verso la cosiddetta faction ossia la narrazione di fatti. La narrazione si è impossessata della maggior parte dei generi: tranne la saggistica accademica, mi pare che ormai dovunque si raccontino storie. Il romanzo è il modo fondamentale attraverso cui le persone si raccontano, da secoli, delle storie, per cui non vedo perché bisogna avere dei dubbi sul suo valore e sul suo senso nel mondo di oggi. Vende meno? Che venda meno, che problema c’è? A me fanno rabbia tutti quei discorsi sulla “morte del romanzo” che si fanno da una quarantina d’anni a questa parte: per esempio, gran parte della critica italiana vince concorsi in università e occupa le terze pagine dei giornali ripetendo fino allo sfinimento che in Italia il romanzo non si fa, che non ci sono grandi scrittori e così via. Ma potrei farti un lunghissimo elenco di ottimi o grandi scrittori italiani viventi. Qualcuno saprebbe invece farmi il nome di tre grandi critici? Michele Mari, Antonio Moresco o Filippo Tuena, per fare i primi tre nomi che mi vengono in mente, sono tre grandi scrittori in assoluto. Quali sono, invece, i critici italiani che, da quarant’anni a questa parte, hanno scritto qualcosa che sia all’altezza di un Bachtin, di un Genette, di un Bloom?

Che tipo di scrittore sei quanto a metodo e tipologia di lavoro? (Hai orari e luoghi fissi, riscrivi molto o è buona la prima ecc.?). Com’è la tua giornata-tipo e cosa fai per campare?

Sono molto lento nel lavoro di preparazione: prima di scrivere la prima pagina del Demone, per esempio, ci ho messo tre anni, in cui ho raccolto i materiali, ho studiato, ho preso appunti e, soprattutto, ho cercato di farmi un’idea del tipo di voce che volevo adottare. Perché mi decida a scrivere un libro, per me è importante aver capito, prima che gli elementi della trama, chi sono i miei personaggi, che aspetto hanno, che cosa gli è successo prima di quello che racconto nella vicenda e così via. Soprattutto, non mi metto a scrivere se prima non ho risposto a queste domande: «Chi parla, chi racconta? A chi? Perché lo fa?». Risolti i “problemi di voce”, vado. Non ho orari fissi ma, siccome le giornate le ho impegnate nel lavoro, generalmente scrivo nel tardo pomeriggio e alla sera. Nei periodi migliori, in cui sono meno stanco o vedo la fine del libro, tento di scrivere qualche pagina tutti i giorni, ma senza fretta. Tieni conto, poi, che una volta partito sono relativamente veloce: il Demone è stato scritto in meno di un anno. Generalmente non faccio grandi riscritture: a ogni nuova seduta rileggo e aggiusto ciò che ho scritto nella seduta precedente; a fine libro, lo lascio decantare qualche settimana e poi rileggo con la penna rossa in mano, imponendomi di non avere pietà. Ci sono ovviamente delle scene su cui ho lavorato molto, e che scrivo, taglio e riscrivo (un esempio è il dialogo tra Marat e il prete verso la fine del romanzo), ma in generale, fatte salve le correzioni e le cancellature, il libro che consegno all’editore è la prima stesura.

Stai già lavorando a un nuovo libro?

Sto finendo in queste settimane di studiare per un progetto a cui sto pensando da un paio d’anni e che solo in questi ultimi giorni mi si sta chiarendo del tutto. Sarà ambientato in Italia e nella mia testa sarà un romanzo sull’Italia. Niente di sociologico, eh, ma c’entrano certi movimenti politici sotterranei che negli ultimi anni si sono espansi a macchia d’olio e che mi spaventano. Ci voglio però entrare con una prospettiva e dei narratori molto particolari, vediamo se riuscirò a farlo. Non ti dico di più perché sono ancora nella fase in cui o spiego tutto – con il rischio di far sembrare l’intero progetto un’enorme stupidaggine, visto che devo ancora chiarirmi delle cose – o non dico niente. Spero però di riuscire a iniziarlo in primavera, con calma…

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    Terre di mezzo editore è una casa editrice fondata a Milano nel 1994.
    Pubblica ogni anno più di 100 titoli. Tra le collane principali ci sono: L’Acchiappastorie albi e narrativa per bambini e ragazzi, i Percorsi a piedi e in bicicletta, I Biplani, racconti di grandi autori illustrati da artisti di fama, i manuali creativi delle Ecofficine.
    I primi grandi bestseller sono stati la guida al cammino di Santiago de Compostela e La grande fabbrica delle parole, di Valeria Docampo.
    Negli ultimi anni ha portato in Italia le serie di Dory Fantasmagorica e Cane Puzzone, ha pubblicato più di 40 guide ai cammini italiani e ha dato alle stampe i testi di Paolo Cognetti e Erri De Luca impreziositi dalle illustrazioni di Alessandro Sanna, e di Wislawa Szymborska con Guido Scarabottolo, e Claudio Piersanti con Lorenzo Mattotti.

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