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Eroina e sudore

L’eroina non è passata di moda, tutt’altro. Ma la letteratura se ne occupa poco. Ecco uno dei motivi per cui Devozione, l’ultimo romanzo di Antonella Lattanzi, è un libro importante, da leggere a tutti i costi. Dentro ci troverete una bravissima scrittrice e la storia di Pablo e Nikita, studenti fuori sede nella Roma del 2006 ed eroinomani senza speranza. Un libro forte e duro, che pulsa ad ogni pagina: che, come sottolinea l’autrice, non è storia di morte ma, al contrario, una ricerca disperata di vita.  

Perché hai deciso di occuparti di un tema come quello dell’eroina? Per molti è una droga demodè, mentre mi pare di capire che nella realtà non sia così.
No, nella realtà non è così, purtroppo. Ho scelto di parlare di eroina perché l’ho vista. A metà degli anni Novanta ero un’adolescente. Frequentavo una piazza di Bari – la mia città natale – che si chiama piazza Cesare Battisti (ne parlo anche nel romanzo). Lì, si riuniva gran parte della gioventù barese, quindi anche tanta gente che non conoscevo. Fino alla metà degli anni Novanta, nessuno usava eroina. Dopo, di colpo, nel ’95-’96: ho visto tantissima gente avvicinarsi a questa droga, dal nulla, iniziare a usarla, e quasi subito diventarne dipendente. Non che fossero miei amici, ma ancora di più: mi ha sconvolto. Anni dopo, quando mi sono trasferita a Roma – era il 2001 – ho notato che non si trattava di una realtà pugliese, o barese. Ma che l’eroina era tornata, più forte e presente come mai, come il mostro di un film horror. Mi sono chiesta perché nessuno ne parlava. Ho deciso di farlo io. Di studiare il mondo eroinomane. Di capire quanto l’eroina fosse protagonista dei nostri anni. E ho capito: tanto, troppo. Dovevo raccontare.

In un’intervista hai detto di non avere mai fatto uso di eroina, ma di averne subito la fascinazione e di essere stata salvata dalla scrittura: al di là della frase un po’ romantica, spiegami meglio: dove affonda le radici un romanzo come Devozione?
Non avevo detto esattamente così, non era un’intervista scritta: hai ragione, così è davvero romantico (nella sua accezione negativa) e poco chiaro. Quello che volevo dire, e che intendo, è: quando ho deciso di guardare, di vedere l’eroina – è pazzesco, ma la maggior parte della gente si rifiuta di vederla – ho naturalmente subito la sua fascinazione. Le droghe sono così, per definizione: orrende e affascinanti. Soprattutto da adolescente, è normale che vederla così vicina mi abbia fatto incuriosire. Il motivo, però, per cui non mi sono data a questa droga è, secondo me: la passione per la scrittura. Credo che in questo senso tutte le passioni salvino: dalle disperazioni.

Nel libro Nikita in qualche modo sembra il tuo doppio speculare: stessa età, stesse origini, sogni simili ma con esiti diversi. Anche lei desidera fare la scrittrice, ma questo non la tirerà fuori dal suo incubo…
Ecco, appunto, la scrittura non è salvifica. La scrittura è, per chi la ama, felicità. Ma allo stesso tempo richiede impegno, dedizione, fatica, sudore: questo un eroinomane non può darlo a nient’altro che alla droga. L’eroinomane vive per il momento: procurarsi l’eroina. Se non vuoi dedicarti alla scrittura, la scrittura non ti salverà. Per quanto riguarda il mio doppio: Nikita non ha la mia età (io ho 30 anni, lei 26), ma per il resto è vero che ci sono delle similitudini tra noi: le origini geografiche, la passione per la danza, l’amore per la scrittura. L’ho fatto per due motivi: 1) raccontando una materia tanto distante da me come l’eroina, avevo bisogno di condirla con elementi vicinissimi a me, per rendermela più “familiare”; 2) volevo dire, volevo scrivere, che io non sono diversa da un eroinomane. Che secondo me nessuno lo è. Mi spiego: in potenza, tutti cerchiamo la serenità. È il modo di cercarla che è differente. Ci tengo che venga fuori: questo non è un romanzo di morte, è un romanzo sul disperato desiderio di vita.

Verso la fine del romanzo mi pare che tu imputi parte delle responsabilità di quanto è accaduto a Nikita ai suoi genitori, famiglia “normale” (cioè: non particolarmente disagiata né particolarmente ricca) che si accorge del problema della figlia, ma fa finta di niente. Che ruolo hanno/dovrebbero avere dei genitori in una storia del genere secondo te?
Non do responsabilità a nessuno, non me la sentirei mai. Lo scrittore deve secondo me porre delle domande, non dare delle risposte. Creare uno strappo nel silenzio, una crisi là dove c’è omertà. Non sono contro la normalità (anzi, Nikita la cerca disperatamente), non è questo che mi interessa. La colpa si annida e nelle famiglie normali – vedi quella di Nikita – e in quelle disastrate – vedi quella di Pablo, che ha origini completamente diverse ma che sempre eroinomane è. Nel libro Nikita più volte si chiede dov’è iniziato tutto, da cosa le viene quest’amore per l’eroina. Ma più se lo chiede più si rende conto che non lo sa. Non c’è, oggi, un solo motivo per diventare eroinomani. Non c’è una colpa sola, e quindi nemmeno una discolpa. L’eroinomane non è per forza un individuo traumatizzato: tutti lo siamo, e non per questo tutti ci droghiamo. Certo, la maggior parte dei genitori non  accetta di avere un figlio eroinomane: la famiglia è una metafora per la società, è il particolare nel generale: come la madre finge di non vedere la tossicomania di un figlio, così fa la società nei confronti dell’individuo, o della categoria dipendente. Ma succede sempre: nel mio romanzo, l’eroina è solo l’argomento, non il tema. Il tema è la dipendenza, cerco di metterla in scena in tutte le sue forme: dipendenza dalla famiglia, dall’amore, dall’infanzia, da un’idea “romantica” di noi stessi, dal dolore, persino. Ecco, cerco di dire che Nikita – e quindi l’essere umano – è Nikita sia quando è una bambina buona che quando è una tossica con le braccia distrutte. Mamma, queste sono le braccia di tua figlia, mi vuoi anche così? – chiede Nikita a sua madre. È questa la domanda che io pongo. Certamente, la dipendenza è solitudine. Se smettessimo di essere, come dicevo prima, omertosi, e guardassimo: noi stessi, il prossimo. Sarebbe tutto più semplice, meno orrorifico. Se accettassimo di avere un po’ di coraggio.

Mi interessa molto il making of del libro: so che hai frequentato i posti dei tossici per qualche anno per raccogliere il materiale necessario al libro. Raccontami come e dove sei stata, e soprattutto come hai fatto a passare per tossicodipendente, a farti accettare in quel mondo ecc.
Quando ho deciso di scrivere questo libro, sapevo quello cui sarei andata incontro, nel making of. Credo che uno scrittore debba sempre scrivere di ciò che conosce, per cui avevo bisogno di conoscere, appunto, il mondo che volevo raccontare. Se avessi detto agli eroinomani che li volevo studiare, che ero una scrittrice, o che comunque non usavo eroina, non sarei mai riuscita a superare il velo che ci sarebbe stato tra me e loro. Non avrei conosciuto loro, ma solo ciò che loro avrebbero voluto farmi conoscere. Conoscevo i luoghi dell’eroina. Chiunque, se vuole, può conoscerli. Ho abitato a lungo a San Lorenzo. Non è stato difficile scendere in strada, andare nel parchetto di San Lorenzo e chiedere: sapete dove posso trovare un pezzo di roba? È importantissimo conoscere le parole giuste. Un genitore che chiede a un figlio: ti buchi?, crea un muro tra lui e il figlio già in partenza. Superato il primo momento, tutto quello che dovevo fare era guardare. Vivere con loro il più possibile. Come ho detto, un eroinomane ha in mente solo una cosa: l’eroina. Non si guarda troppo intorno, non si fa troppe domande. Sono andata con loro nei Sert, a Napoli – a Secondigliano, in particolare – in quei luoghi dove lo Stato non c’è più e c’è solo la legge della droga, sono andata a Villa Maraini fingendomi una tossicodipendente che voleva iniziare una cura col metadone, e di avere l’epatite c. Ho visto tante cose, non tutte le ho potute raccontare, ci sarebbero volute mille pagine. Di più. La cosa che più mi ha colpito, come dicevo prima, è che io – noi – non sono poi così diversa da un eroinomane. Che anche io ho le mie dipendenze personali. Che anche io: ci sono momenti che una sola cosa risucchia tutto il resto.

In questo lavoro di documentazione hai mai avuto paura?
Certo. Ho avuto paura a Secondigliano, perché lì davvero sei nelle mani del Caso. O meglio, no. Sei nelle mani dei trafficanti di droga, che però non ti faranno mai del male. Altrimenti, da tutta Italia chi ci va più, lì, a comprare l’eroina. Ho avuto paura quando ho capito che un eroinomane è come posseduto: che cambia completamente personalità quando diventa dipendente dall’eroina. Che non ti puoi fidare di nessuno. Ma l’eroinomane fa male soprattuto a se stesso: è per questo, forse, che la società ha scelto per una rimozione generalizzata. E perché il tossico di oggi non dà più alcun fastidio: di solito non ruba, non uccide, perché ha il metadone. E non lo vedi neanche morire agli angoli delle strade: oggi per lo più non si muore di Aids – che vedi nel corpo deperito, nei visi sofferenti delle persone – ma di epatite c, il killer silenzioso. Il tossico di oggi non sbatte più in faccia alla società le colpe dell’abbandono. E per questo nessuno vuole vederlo più. Ho avuto paura, più di tutto, del confine. Labile. Effimero. Tra me – tra noi – e un eroinomane.

Cos’hai “scoperto” oltre a quello che possiamo leggere nel romanzo?
Che gli eroinomani, paradossalmente, come tutti cercano la serenità, la gioia, la fine del dolore. Non la morte. Che, come tutti, non si rendono conto davvero, sino in fondo, di quello che fanno. Come me: quando fumo, non mi rendo davvero conto che con le sigarette si muore. Come chi beve, anche poco, anche solo un aperitivo la sera. Le droghe socialmente accettate: è un concetto che odio, che detesto.
Con questo voglio né semplificare il tema della tossicodipendenza, né creare degli alibi per gli eroinomani, e nemmeno dire che tra un eroinomane e un non-eroinomane non c’è differenza. Voglio dire, solo: che l’eroina non è così distante da noi come crediamo. E che dipendenti siamo tutti.

Infine: che tipo di scrittrice sei? Intendo: dove come quando perché scrivi?
Scrivo il più possibile, e dappertutto. Soprattuto, leggo il più possibile. Leggo qualunque cosa da cui credo di poter imparare. Cerco di scrivere ogni giorno. Non credo nell’ispirazione. Credo nella fatica, nel sudore, nella dedizione alla propria passione. Credo che la scrittura richieda uno stile di vita quasi ascetico, monastico: ma che in cambio ti salva. Non, come dicevamo prima, con una sorta di magia. Ti salva perché ti chiede tutto. Se sei disposto a impegnarti, a faticare: allora, in quei brevi attimi in cui hai scritto qualcosa che ritieni bello, e anche e soprattutto nello sforzo, nell’impegno: sei felice, veramente.

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