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A pesca di parole con Fabio Genovesi

Fabio Genovesi ha scritto uno di quei romanzi (Esche vive, Mondadori) che quando li finisci vorresti conoscere l’autore di persona. E quando magari ti capita di conoscerlo, vorresti che abitasse più vicino a casa tua per poterci bere insieme una birra ogni tanto.
C’è molta vita vera in queste pagine che raccontano la profonda provincia italiana e le giornate di un adolescente, Fiorenzo, che deve fare i conti con i propri limiti (fisici ma non solo) e decidere se tenere duro o mollare tutto. Scrivevo tempo fa che Fabio “è un narratore nato, sa far ridere e commuove, sa dipingere con pochi e sapienti tratti la vita di provincia e gli sconquassi dell’adolescenza, e il libro ti rapisce perché in qualche modo parla di tutti noi, ricordandoci che in fondo quello che conta è stringere i denti e guardare sempre avanti”. A distanza di mesi confermo tutto.

Cosa fai per vivere?

Tutto quel che capita. Scrivo i libri, scrivo per i giornali e le riviste, soggetti per cinema se c’è modo, e poi traduco e aggiusto. Sono stato cameriere, guida turistica, raccatta palle in un tennis club, portatore di spese a domicilio, montatore e smontatore di stabilimenti balneari, giardiniere, apprendista idraulico. Da questi lavori e da chi li fa seriamente ho capito molto, e per prima cosa che quando fai lo scrittore non puoi e non devi mai dire “sono stanco”. Non devi, non puoi.

Quando hai iniziato a scrivere e perché?

Ho iniziato verso i sedici anni. Avevo una macchina da scrivere con cui volevo scrivere un manuale di pesca. Poi i lunghi inverni in Versilia, insieme all’assenza mostruosa di soldi e di ragazze, mi hanno regalato tanto tempo da utilizzare battendo sui tasti, e mi è venuto da scrivere racconti e romanzi. Fossi stato ricco e playboy, magari non avrei mai cominciato.

Quando, dove, come, per quanto tempo scrivi in una singola “sessione”?

Per me la scrittura è come la muratura. Gli orari sono massicci e sempre quelli. Mi alzo alle 7 e parto a scrivere. Verso mezzogiorno e mezzo smetto. Il giorno riguardo qualcosa, vado in giro, prendo appunti. La sera dopo cena mi ci rimetto, ma non è mai un lavoro serio. La mattina tiro su i muri, mattone su mattone. La sera vado di spatola.

Nel tuo ultimo romanzo hai messo molte delle tue passioni: la pesca, il ciclismo, la musica. Raccontami la tua giornata-tipo.

La mia giornata tipo varia a seconda del periodo. Dipende soprattutto dalle maree e dalle condizioni meteo e marine per la pesca. Generalmente, la mattina appunto scrivo a testa bassa, poi a pranzo un giro veloce a vedere com’è il mare. Se i segnali sono buoni, pesco nel pomeriggio e lavoro dopo cena, oppure lavoro nel pomeriggio e vado a pesca di notte. Quando non c’è verso di pescare, mi metto a lavorare a testa bassa così mi porto avanti e ho più tempo per andare a pesca nella stagione delle seppie, in quella delle orate e pure delle trote. Non esistono per me i giorni della settimana: magari vado a pesca il lunedì mattina, sì, però ho passato il sabato e la domenica a lavorare. Certo, in questo modo il tempo che rimane per la vita sociale è quasi nullo, ma va bene così. Una trota sa rivelarsi un ottimo compagno di uscite. L’importante è non passare troppo tempo in casa. La vita vera per me è all’aria aperta, il resto è un ripiegare.

A proposito di musica: Fiorenzo è un rockettaro duro e questo ti dà il gancio per una condanna senza appello del “rock italiano…”

Il rock italiano mi fa orrore. Ci sono rarissime eccezioni fulgide, il resto è la solita canzonetta che si sentiva negli anni Sessanta, “rimodernata” con qualche arrangiamento che si usava negli anni novanta. La roba più commerciale è di una vuotezza sconfortante, ma l’alternativa da noi diventa subito superba e barocca e cervellotica e presuntuosa. Da noi o si canta di quanto è bello amare, o delle categorie kantiane miste alla teosofia antica. Nel mezzo non esiste nulla. Invece ci sarebbe un mondo emorme da cantare, da suonare. Quello è sempre da un’altra parte rispetto alla musica italiana. Come purtroppo rispetto a molta narrativa italiana. A entrambe manca la struttura per maneggiare materiale davvero incandescente, si concentrano sul particolare, sul fronzolo, sul balocco. Insomma, anche se rischio di scadere nel triviale e nell’odiosa laidità esibita del toscano, ha ragione un amico di mio nonno quando dice: “A voi farvi le seghe vi garba di più che trombare”.

Il tuo è anche un libro sulla provincia: c’è chi parte, ritorna e poi scappa ancora, e c’è chi, come il protagonista, sembra quasi condannato/rassegnato a viverci per sempre. Tu vivi a Forte dei Marmi: come ti trovi dalle tue parti? Hai mai pensato a un piano di fuga?

Ho vissuto per un po’ a Roma, ma appena c’è stata la possibilità economica di tornare a casa ho salutato tutti e via. Non c’è confronto, per me. Amo i piccoli paesi, quelli con una piazza sola o ancora meglio senza una piazza. Anche viaggiando, le grandi capitali mi annoiano da morire e trovo posti favolosi solo lungo strade sperse e in mezzo al nulla. È qua che nasce e vive la narrativa, le storie respirano così. Certo, a sedici anni vorresti scappare, fare colazione a New York e merenda a Singapore, e in questi piccoli posti passi il tempo a picchiare la testa nel muro che non si sfonda mai. Ma va bene così. Anche questa frustrazione è tutto oro che brillerà con gli anni. E se poi per te non brilla, puoi prendere e andartene. È un paese libero.

Un tema forte in Esche vive è quello del fallimento: sia Fiorenzo sia, in qualche modo, il Campioncino devono fare i conti con i propri limiti. 

Quello che ho cercato di fare è parlare di gente che ci prova, che giorno per giorno abbassa la testa e combatte. Il “loser” è figura stranota che abbiamo preso dalla letteratura americana, io volevo invece parlare dell'”underdog”, quello che parte svantaggiato. Ma non è detto che debba perdere, e anzi se vince il premio è pure più alto. È vero che viviamo un’epoca che spaventa e spaesa, ma il gusto diffuso di crogiolarsi negli impedimenti e fare l’elenco degli ostacoli mi infastidisce un sacco. È letale, e pure molto anti-narrativo. Scoprendo i loro limiti, Fiorenzo e Mirko scoprono pure che possono superarli, in modi sbilenchi magari ma la via sbilenca è spesso quella più fruttuosa.

A cosa stai lavorando ora?

Sto creando diversi scompartimenti nel cervello e nel cuore per lavorare a varie cose tutte insieme:
a) Un “Contromano” per Laterza che scrivo sul mio paese, Forte dei Marmi. Il titolo provvisorio è Morte dei Marmi, e spero diventi quello definitivo.
b) La rilettura del mio primo romanzo, Versilia Rock City, che sarà rieditato da Mondadori e allora ne approfitto per variare alcune cose qua e là.
c) Il romanzo nuovo che è ancora in alto mare ma accumulo chili di appunti per farlo veleggiare verso di me.
d) Traduco Barry Gifford per un gran bel libro che Fandango farà uscire l’anno prossimo.
e) Cerco di mettere una quantità almeno accettabile di ore di pesca nella mia vita. Quando non riesco ad andare a pescare almeno due volte alla settimana, vuol dire che sto sbagliando qualcosa. E tutto il resto si blocca. Non ho idee, non ho benzina per farle andare. L’acqua davanti è necessaria.

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    Terre di mezzo editore è una casa editrice fondata a Milano nel 1994.
    Pubblica ogni anno più di 100 titoli. Tra le collane principali ci sono: L’Acchiappastorie albi e narrativa per bambini e ragazzi, i Percorsi a piedi e in bicicletta, I Biplani, racconti di grandi autori illustrati da artisti di fama, i manuali creativi delle Ecofficine.
    I primi grandi bestseller sono stati la guida al cammino di Santiago de Compostela e La grande fabbrica delle parole, di Valeria Docampo.
    Negli ultimi anni ha portato in Italia le serie di Dory Fantasmagorica e Cane Puzzone, ha pubblicato più di 40 guide ai cammini italiani e ha dato alle stampe i testi di Paolo Cognetti e Erri De Luca impreziositi dalle illustrazioni di Alessandro Sanna, e di Wislawa Szymborska con Guido Scarabottolo, e Claudio Piersanti con Lorenzo Mattotti.

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