“Mi scuso se non inizio dalle signore, ma in Marocco il tè si distribuisce da destra verso sinistra” dice la padrona di casa, dopo aver riempito i bicchieri. Stasera si cena nel salotto di Nezha Mousaif, 32 anni, con menu a base di cous cous di carne fatto secondo la tradizione del suo Paese di origine. I commensali sono quattro, tutti italiani. Non si conoscono tra loro e non hanno mai visto Nezha prima di stasera: l’indirizzo della casa in cui avrebbero cenato è arrivato via mail, ventiquattro ore prima. Nello stesso momento, a Torino, si svolgono altri dieci incontri “al buio” come questo: un rito che si ripete una volta al mese, da settembre a maggio, e va sotto il nome di “Indovina chi viene a cena”.
Ideata dalla Rete di cultura popolare, associazione che promuove iniziative di scambio e conservazione dei patrimoni culturali, l’iniziativa nasce per favorire la conoscenza tra famiglie di immigrati e di italiani, attraverso il cibo e la condivisione della tavola: avviata due anni fa nel capoluogo torinese, nel 2012 ha ottenuto il patrocinio del ministero della Cooperazione e dell’integrazione ed è stata replicata anche ad Arezzo, Prato, Grosseto e Roma. “Merito di persone che, dopo aver partecipato a una delle nostre cene, hanno deciso di riprodurre la formula anche nelle loro città” dice la coordinatrice Paola Garbarino, che per favorire la diffusione del progetto “dal basso”, ha pubblicato un form sul sito, in modo che chi vuole organizzare una serata possa compilarlo e ottenere tutte le informazioni del caso.
“In Etiopia dicono che, se accetti di metterti a tavola con qualcuno, non ci farai mai la guerra -spiega Garbarino-: per noi il cibo non è solo una chiave di dialogo universale ma anche una risorsa di cultura, storia e sapere, che vogliamo mettere in circolo“. Così, insieme al marito Pablo, ecuadoriano, e alla figlia Kadija, di tredici mesi, Nezha Mousaif ha aperto altre tre volte le porte del suo trilocale: in queste occasioni inizia a cucinare fin dal pomeriggio perché un cous cous “alla mia maniera”, dice, facendo sottintendere l’unicità del suo piatto, richiede una lunga preparazione. E confessa di avere un trucco: aggiungere, a metà cottura, una noce di smen, un particolare burro rancido e salato che si fa portare dal Marocco. Gli ospiti, incuriositi, continuano a fare domande e la tensione iniziale si scioglie, fino a trasformarsi in allegria quando tutti cominciano a infilare le forchette nel grande piatto unico che Nezha porta in tavola. Una piramide di colore che inizia con una base di cous cous perfettamente sgranato, una corona di verdura di stagione e un traboccante e morbido spezzatino. In tavola rimangono solo le briciole, mentre si finisce a parlare di affanni e gioie quotidiane. Ci si saluta a notte fonda augurandosi di incontrarsi ancora, magari in un’altra delle famiglie provenienti da Romania, Etiopia, Albania, Perù, Sri Lanka, Cina, Etiopia, Camerun e Messico che stasera hanno accolto degli sconosciuti a casa loro, mangiando e ridendo insieme a loro.
Oswaldo Boy, un ingegnere peruviano arrivato in Italia tanti anni fa con la sua numerosa famiglia, finora ha ospitato una ventina di persone in casa sua. Tra loro ci sono anche Paolo e Stefania, che abitano in provincia di Biella e, ogni mese, non perdono occasione per partecipare a Indovina chi viene a cena: “In questo modo possiamo conoscere persone nuove e tradizioni lontane che purtroppo, nella vita quotidiana, riusciamo soltanto a sfiorare”. Un’alternativa al ristorante, ma “decisamente più ricca” dice Paolo. Perché, se è vero che l’organizzazione consiglia di ringraziare per l’ospitalità offrendo alla famiglia un rimborso spese di almeno 15 euro, quantificare il tesoro che ci si riporta a casa è davvero impossibile.
Testo: Pamela Pelatelli
Foto: Arianna Forcella
su TdM n° 042 febbraio 2013